Il colore predominante è il blu. Quel punto di colore pastoso
e riposante che è dei luoghi di cura. Mi spogliano completamente.
Un’infermiera appoggia su una sedia abiti, biancheria, il foulard. La
mia vita normale viene accantonata insieme agli indumenti su quella
sedia e non so quando la indosserò di nuovo. O se la indosserò ancora.
Quasi a coprire la tristezza di quel pensiero, sugli indumenti viene
appoggiato anche il cappotto dimenticato sulla sedia a rotelle, quella
su cui ho trascorso le ultime tre ore in attesa degli esami che poi
hanno decretato il ricovero in Unità Coronarica. Stranamente non ho
paura, so che nessuno è eterno. E poi ho imparato bene, anni fa,
cercando di curare la terribile forma epilettica di mio figlio, che aver
paura non serve a niente. Come tutti qui, affronterò gli eventi uno
per volta per venirne fuori o, serenamente, per lasciarmi andare a ciò
che mi aspetta. Mi rendo conto che restare lucidi è importante;
soprattutto per restituire serenità alle persone care che vivono in
altre città. Sento che, sempre che vada bene, sono a una svolta e che la
mia vita in simbiosi con il figlio con disabilità non potrà essere più
la stessa.
Il dottore, per comunicarmi la decisione del ricovero in terapia
intensiva usa un’espressone bellissima. Dice: “ Ora la mettiamo in
sicurezza, signora. Stia tranquilla.”
Mettere in sicurezza qualcuno è più che salvarlo: è l’impegno qui e
ora a fare di tutto, ad accompagnare una persona e attendere con lei i
tempi di una guarigione o quelli di una chiusura dell’esistenza, senza
promesse, senza eroismi.
Questo ho cercato di fare fin qui: mettere in sicurezza i figli,
senza bacchette magiche o miracoli che potessero cambiare la realtà. Ma
realizzo subito che da questo momento, rispetto al piccolo con
disabilità, non sono più quella che può vantare esclusive sulla sua
messa in sicurezza. Intanto mi domando se i familiari saranno capaci di
superare la preoccupazione per me (viva o morta) e destinare le risorse
emotive a lui, quelle che permettono di entrare in comunicazione
profonda con una persona per carpirne i non detti, le necessità
ineludibili che lui non sa esprimere. “Mettere in sicurezza” significa
anche saper cosa fare nell’emergenza. I genitori sanno cosa devono fare,
gli altri no.
Mi rendo conto che non aver condiviso, almeno in famiglia, una sorta
di ideale manuale per la gestione del figlio con disabilità, non è stata
un’idea brillante. E che così facendo ho anche deresponsabilizzato gli
altri. Penso a storie come quella di Queen Ann
che “subì” la volontà del figlio, che lei avrebbe voluto proteggere dai
pericoli di un viaggio intercontinentale, ma che portò il giovanissimo
Alessandro al salto felice nell’età adulta, e la madre a riprendersi
spazi di libertà. Che sono fondamentali se si pensa che i genitori dei
figli con disabilità non hanno la libertà di divertirsi ma nemmeno
quella di curarsi quando sono ammalati.
Nei giorni d’ospedale ho tirato fuori un’altra me stessa e ho cominciato a volermi bene.
Tratto dal Blog invisibili Corriere della Sera