Buona Festa del Papà. Ma c’è padre e padre. O no?
Si chiama Yu Xukang, ha quarant’anni, è divorziato ed ha un figlio di
dodici anni, con disabilità. Ha fatto notizia questo papà cinese che
percorre ogni giorno 29 chilometri per portare il figlio a scuola, a
piedi e sulle proprie spalle. Il Daily Mail lo ha eletto uomo dell’anno.
Ne ha scritto anche il Corriere della Sera. La fatica di questo papà mi riporta alla memoria quella sportiva del Team Hoyt,
Dick e Rick, padre e figlio con paralisi cerebrale, che ha partecipato
più volte all’Ironman, una forma molto dura di triathlon in cui Dick ha
macinato 3,8 chilometri a nuoto trascinando un canotto con dentro il
figlio, 180 chilometri su una bicicletta preparata con una speciale
seduta per Rick e 42 chilometri di corsa spingendo la sedia a rotelle su
cui Rick ha esultato tagliando il traguardo di una gara
meravigliosamente tremenda.
Sono storie estreme che nascono in contesti ambientali ed economici
lontanissimi, in tutti i sensi. Eppure a noi, commozione a parte, dicono
le stesse cose. E parlano degli uomini, dei loro silenzi, di paternità
vissute con trasporto, di forme d’amore così denso che si può toccare,
misurare col metro e pesare con la bilancia. Ne scrisse una toccante esperienza anche Simone Fanti su InVisibili.
E che si mette alla prova: ogni giorno viene infranto un nuovo
piccolissimo record. Alle nostre latitudini invece si parla poco di
consapevolezza paterna e quasi nulla di relazione con la disabilità.
Come se coltivare i figli, oltre che accudirli, fosse mansione
esclusivamente materna; come se la maternità fosse un obbligo e la
paternità un optional; come se non fosse normale per una donna non avere
voglia di maternità e destinare le proprie energie ad altro; come se
non fosse normale per gli uomini avere uno spiccato senso della cura e
una propensione potente verso la genitorialità.
Anni fa, al centro in cui mio figlio riceve le cure riabilitative, i
padri erano presenti come autisti o per aiutare nelle mansioni più
faticose. E invece i padri oggi sono protagonisti, si mostrano liberi da
compiti di utile contorno, con i figli piccoli in collo; accompagnano
figli adolescenti e con loro fanno squadra; lottano accanto ai figli
adulti.
E li ascolto, in sala d’aspetto, quando parlano dei progressi dei
propri figli, smisuratamente orgogliosi delle loro infinitesimali
conquiste; e a volte, quando con più facilità si indovina la dimensione
della loro solitudine, sono separati o vedovi. E coraggiosi e affamati
di vita e di valori.
E sorrido pensando che sono lontani anni luce i giorni in cui ci si
vergognava dei figli strani e al massimo, con tenerezza, ci si doleva; e
solo tra amici intimi. Ma il fiorire in breve tempo di una serie di
libri scritti da padri di figli con disabilità mi sembra sintomatico di
un bisogno prepotente di raccontarsi e di dare pubblicamente di sé. Il
coraggio di farlo non è, forse, ancora così diffuso ma personalmente ci
spero, perché l’universo maschile merita di essere viaggiato e
conosciuto in questa sua veste particolare. Massimiliano Verga, con “Zigulì” e “Un gettone di libertà”; Gianluca Nicoletti, con “Un giorno ho sognato che parlavi”; Franco e Andrea Antonello, con “Sono graditi visi sorridenti”
sono tre esempi di padri che devono alla propria iniziativa e
all’autenticità dei loro scritti il favore che hanno incontrato presso
il pubblico che, evidentemente, è tutt’altro che sordo all’approccio
maschile alla genitorialità specie di un figlio con disabilità.
E allora, coraggio. E una volta di più, mille e mille auguri.
Tratto da invisibili.corriere.it
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