MIA FIGLIA SI CHIAMA CLAUDIA,
HA 39 ANNI E LA SINDROME DI RETT.
Abbiamo cercato di offrirle il meglio, abbiamo, con le poche informazioni che si potevano avere 39 anni fa cercato soluzioni e cure che potessero offrirle opportunità di riabilitazione e un futuro migliore, eravamo soli, perché la disabilità oltre gli ostacoli burocratici, medici, organizzativi famigliari porta anche alla solitudine, gli amici si allontanano seguiti spesso anche dai parenti, ma siamo comunque riusciti a rimanere famiglia cercando di offrire ai nostri figli oltre all’amore incondizionato la consapevolezza di essere tutti allo stesso modo amati e seguiti. Ho dedicato la mia vita all’assistenza di Claudia quando abbiamo capito che per lei non potevamo fare altro che amarla e farla stare al meglio, cullata tra le braccia e le attenzioni di tutti noi. Quando gli altri figli sono diventati adulti è diventata il centro delle priorità per ognuno di noi, se sta bene lei stiamo bene tutti. Non abbiamo mai preteso né lussi, né privilegi,abbiamo avuto una vita sociale limitata ma questo non ci ha impedito di rimanere nel contesto sociale, non ci spaventano le difficoltà e ne abbiamo affrontate in silenzio molte. Claudia ama la sua casa e qui deve poter rimanere anche quando noi genitori non ci saremo più, non dovrà essere ricoverata in istituto, perché anche fosse il migliore del mondo non riuscirebbe a garantirle tutte le attenzioni a cui lei è abituata e sarebbe una lenta agonia. Perché una persona con disabilità cognitive deve essere allontanata dalla propria casa quando i genitori non ci sono più? Perché non si rispettano le volontà dei genitori, e sono molti, e non si cerca di trovare un accordo che garantisca la permanenza al domicilio della persona con disabilità anche dopo che questi genitori com’è naturale nel percorso di ogni vita, non ci saranno più? La sorella di Claudia, che desidera prendersene cura ha il diritto però di continuare a vivere la sua vita lavorativa e a non far mancare ai suoi figli e al proprio marito le attenzioni che offre loro ora, per questo io chiedo, anzi pretendo che sia finalmente messa in atto correttamente la legge162 /98 che riconosce alle persone con disabilità gravissima di poter avere assistenza fornita dall’Ente pubblico anche per 24 ore al giorno. Che senso ha una buona legge inapplicata per carenza di fondi. Se Claudia fosse ricoverata in una struttura sanitaria –assistenziale costerebbe alla collettività 300-400 euro al giorno essendo totalmente non autosufficiente, semprechè naturalmente la si voglia tenere in vita, cosa cambia se quella stessa cifra fosse spesa per assumere persone che l’assistono a domicilio? Vorrei iniziare un confronto serio, costruttivo e concreto con le istituzioni a questo scopo, vorrei poterlo fare senza dovermi rivolgere alla legge e alla Corte Europea per avere riconosciuto il diritto di Claudia a rimanere nel contesto familiare senza dover penalizzare la sorella. A un genitore non si può chiedere di sacrificare la vita di un figlio per il benessere di un altro, ma quel genitore può e deve chiedere alle Istituzioni di poter garantire a ognuno di loro il diritto a vivere una vita dignitosa e serena senza che la disabilità influisca negativamente sulla realizzazione di questa. Sono pronta a impegnarmi per questo e spero che altri genitori trovino la forza e il coraggio per fare altrettanto, per una vera realizzazione del futuro dei loro figli e per poter chiudere gli occhi con serenità. Se invece LA POLITICA ITALIANA pensa che dobbiamo togliere il disturbo eliminandoci che lo dica apertamente che ci organizziamo.
MARINA COMETTO
combot@alice.it
Guglielmo Pepe 2 giugno 2012 alle 19:29
Marina, Francesca, Maria Pia, Adele, Rita, Chiara, Nadia, Maria.
Noto e faccio notare ai lettori che le persone intervenute sulle condizioni di vita dei disabili e delle loro famiglie, sono tutte donne. È una conferma che il peso di tale situazioni, anche se non ricade quasi sempre esclusivamente sulle spalle femminili, coinvolge molto di più le donne degli uomini. E non solo materialmente, anche culturalmente e socialmente. Viene da pensare che se la situazione della vita “diversa” è tanto difficile, dura, dolorosa nel nostro Paese, è anche perché una parte della comunità, quella maschile, seppure non nella sua totalità, non si impegna come dovrebbe quando in famiglia c’è una persona disabile. Credere che “portare i soldi a casa” sia sufficiente per assolvere i propri doveri poteva, forse, essere una giustificazione, un paravento, quando le donne non lavoravano. Ora non pìù. E noi uomini dovremmo interrogarci e rispondere sulle nostre insufficienze e sulle nostre responsabilità.
Noto e faccio notare ai lettori che le persone intervenute sulle condizioni di vita dei disabili e delle loro famiglie, sono tutte donne. È una conferma che il peso di tale situazioni, anche se non ricade quasi sempre esclusivamente sulle spalle femminili, coinvolge molto di più le donne degli uomini. E non solo materialmente, anche culturalmente e socialmente. Viene da pensare che se la situazione della vita “diversa” è tanto difficile, dura, dolorosa nel nostro Paese, è anche perché una parte della comunità, quella maschile, seppure non nella sua totalità, non si impegna come dovrebbe quando in famiglia c’è una persona disabile. Credere che “portare i soldi a casa” sia sufficiente per assolvere i propri doveri poteva, forse, essere una giustificazione, un paravento, quando le donne non lavoravano. Ora non pìù. E noi uomini dovremmo interrogarci e rispondere sulle nostre insufficienze e sulle nostre responsabilità.
ALCUNI DEI TANTI COMMENTI
Che poi la nostra società non sia a misura umana ne sono consapevole, ma non è certo adeguandomi a quanto proposto e organizzato dalle istituzioni che garantisco la vita di mia figlia anche dopo di noi. Claudia rimarrà a casa sua anche quando noi genitori non ci saremo più, come? non arrendendomi al pensiero comune ma continuando a lottare per offrirle il meglio per una vita dignitosa adeguata alle sue condizioni. Nessuna struttura diventerà mai casa di Claudia perchè Claudia una casa c’è l’ha.