di Simone Fanti
Tornare a camminare. Qualche volta ci penso! Anzi ci penso tutte le volte che arrivo ai piedi di una scalinata. Tutte le volte che vorrei prendere a calci qualche furbone che – maleducato – mi parcheggia così vicino che non riesco a salire in macchina. Sì lo ammetto tornare in piedi a guardare il mondo dal mio metro e ottanta non mi dispiacerebbe affatto. Quindi immaginate il mio stato d’animo quando sono stato invitato a vedere il Rewalk, un esoscheletro di ultima generazione, che permette ai mielolesi di camminare. Mi sono presentato all’appuntamento con un misto di speranza e sana incredulità… Eppur si muove, cammina, fa le scale… mi verrebbe da dire. Ho visto con i miei occhi Manuela Migliaccio, una splendida trentenne napoletana,con una lesione mielica lombare, alzarsi dalla carrozzina per iniziare il suo cammino. Con un andamento non proprio elegante e sciolto, ma rigido e a scatti. Tuttavia per essere una delle prime versioni di esoscheletro – il Rewalk è il risultato di una decina di anni di studio – non è male. L’esoscheletro è costituito da due gambe robotiche mosse da due motori elettrici attivati da un computer e alimentati da una batteria (che si porta in uno zainetto sulle spalle). Queste gambe sono dotate di una soletta metallica su cui si appoggia il piede e di lacci che consentono di agganciarle al polpaccio e alla coscia della persona.
Il Rewalk si indossa da seduti e poi attraverso un pulsante si ordina all’apparecchiatura di sollevare in posizione eretta la persona. Questo movimento e quello che permette di salire e scendere le scale sono gli unici due automatizzati. Infatti il comando che permette di camminare non è impartito con un pulsante, ma con un movimento del busto: più ci si inclina in avanti, maggiore è la velocità con cui il Rewalk esegue il passo.
Con curiosità ho seguito Manuela lungo i corridoi del centro di riabilitazione Villa Beretta di Costa Masnaga (Lc) dove il Rewalk viene utilizzato, accanto ad altri strumenti robotici come il Lokomat, per la terapia riabilitativa. Un passo dopo l’altro ha fatto qualche centinaio di metri. E l’ho invidiata. Le ho invidiato la possibilità di fare le scale, anche se Manuela non ha potuto muoversi da sola, ma, per maggiore sicurezza, ha dovuto essere accompagnata dal personale medico. Poi mi sono fermato a riflettere. Cosa si può e cosa non si può fare? Sicuramente l’autonomia di 8 ore e circa 5 chilometri consente di indossare il Rewalk per buona parte della giornata, ma le mani sono impegnate con le stampelle che consentono un equilibrio maggiore. E poi? La disabilità non è solo data dal non camminare. Pensate all’assenza di sensibilità – nel caso di lesioni midollari – che non ti permette di sentire il caldo e il freddo (con il rischio di scottarti senza accorgertene).
E ancora l’incapacità di sentire gli stimoli fisiologici. E quelle sensazioni, timori, risvolti psicologici che ti accompagnano. Non è solo l‘impossibilità di muovere un passo a renderti disabile, sono i pensieri della gente, le consuetudini e i retaggi culturali di una società che emargina a pesare come un macigno sull’anima di chi porta con sé una disabilità. Ciò non toglie che il Rewalk può essere utile, a patto di considerarlo uno strumento riabilitativo e un ausilio per la deambulazione: l’Inail sta ad esempio valutando l’ipotesi di fornirlo esattamente come fosse una protesi. Pura innovazione tecnologica e dieci anni di studio da parte del suo sviluppatore Amid Goffer fondatore della Argo Medical tecnologies, non un miracolo. Forse la possibilità di tornare a camminare è dietro l’angolo.
Tratto da www.corrieredellasera\invisibili
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