Di Franco Bomprezzi
Se ne torna a parlare, finalmente. In modo concreto a Milano, in una giornata, questo mercoledì, densa di appuntamenti. Si comincia con ilCareer Forum di Diversità Lavoro, che permette di accelerare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro con una serie di grandi aziende che aderiscono al progetto. Si prosegue nel pomeriggio con la prima iniziativa pubblica in vista di Reatech Italia (la rassegna dedicata ad accessibilità, inclusione e autonomia, in programma dal 10 al 12 ottobre a Milano): nella rinnovata sede di Milano Congressi, un convegno a più voci, con la presentazione, tra l’altro, dei risultati di una interessante indagini condotta dal G.I.D.P. ossia il Gruppo Intersettoriale dei Direttori del Personale, figure chiave per comprendere come viene percepita e realizzata concretamente una politica di inserimento lavorativo.
Partiamo però da una considerazione generale, drammatica. Nei giorni in cui, giustamente, si snocciolano le cifre impressionanti della disoccupazione italiana, e specialmente di quella giovanile, con un tasso superiore al 40 per cento, nessuno si azzarda a tirare fuori i numeri della disoccupazione (o meglio, della rinuncia all’occupazione) delle persone con disabilità. Ecco fatto: 644 mila iscritti alle liste di collocamento, con un tasso di disoccupazione del 72,5 per cento. Come dire che tre persone con disabilità su quattro, che potrebbero lavorare (si badi bene), non trovano assolutamente spazio nel mercato del lavoro. Anzi, l’attuale crisi generale consente alle aziende di derogare ulteriormente agli obblighi previsti dalla legge ’68 del 1999, che a poco meno di quindici anni di vita, si può considerare piena di luci e di ombre, incapace comunque di far compiere al nostro Paese quel salto culturale e sociale che era nelle intenzioni dell’intero Parlamento.
A questo punto il lavoro, che per tutti è il problema principale, qui diventa quasi una chimera, e i lavoratori disabili risultano più invisibili degli altri. E dire che, ad esempio, nelle università italiane il numero degli studenti con disabilità è balzato in dieci anni da 5 a quasi 15 mila. Tutto farebbe supporre, almeno per i laureati, una possibilità concreta, quasi una corsia privilegiata, per trovare un lavoro qualificato con buona soddisfazione delle aziende. Ma non è così. Dall’indagine svolta dai Dirigenti del Personale, emerge un quadro ambivalente. Da un lato una complessiva propensione a considerare i lavoratori disabili esattamente come gli altri, ma il giudizio sull’applicabilità della normativa vigente è impietoso. Due su tre la ritengono inefficace, un po’ perché superata, un po’ perché le persone con disabilità non corrisponderebbero alle aspettative dell’azienda. Uno su due dichiara di preferire il pagamento della penale, consentita dalla legge, piuttosto che assumere un lavoratore disabile. Il telelavoro è praticamente sconosciuto, mentre viene vista con favore la strada delle convenzioni con le cooperative sociali.
Esiste probabilmente un intricato meccanismo che mette insieme difficoltà oggettive nella selezione del personale, pregiudizi ancestrali e diffidenze che corrispondono perfettamente allo stigma della disabilità, mancanza di incentivi premianti adeguati ai tempi che stiamo vivendo, difficoltà nell’incrociare le competenze con le necessità aziendali, il tutto in un mondo che funziona a corrente alternata, e si basa molto spesso sulla buona volontà delle persone, non su una radicata convinzione che assumere una persona disabile è di per sé un’ottima scelta, anche dal punto di vista delle aziende, grandi o piccole che siano, perché un lavoratore con disabilità, quasi sempre, ha una motivazione fortissima nel dimostrare le proprie capacità, sviluppa un attaccamento al lavoro particolarmente intenso, costringe di fatto i colleghi e l’ambiente di lavoro a un ripensamento positivo, in termini organizzativi e di gestione delle relazioni umane.
Occorre pensarci seriamente, anche adesso, quando si parla di una nuova manovra per favorire l’occupazione. La parola “disabilità” non mi pare che sia mai stata pronunciata in questo contesto. Le persone con disabilità non possono e non devono vivere di sola assistenza, o di servizi di welfare che giorno dopo giorno si stanno smantellando, sotto i colpi della crisi.
Tratto da Invisibili.corriere.it
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