Non tutte le lacrime sono uguali. Oggi torno a scrivere
di antropologia della disabilità. Un parolone, anzi due, per riflettere con
linguaggio facile sull’effetto lacrima da reazione a quello che sulla disabilità
passa in tv nei talent. Non sono un dottore della psiche. Mi limito a qualche
pensiero che credo possa venire a tutti. In passato ho affrontato il tema delle emozioni da poltrona.
Era un pezzo sulla
coerenza di chi guarda le esibizioni di certi partecipanti con
disabilità ai talent, apprezza, si commuove, esulta e uscito dagli studi
televisivi, allontanato dallo schermo e mollato il telefonino del televoto,
riprende a condurre la sua vita di ordinario bistrattamento dei diritti delle
persone disabili. Lontano
dallo schermo, che ci avvicina a una storia ma ci tiene lontano
quanto basta per lasciarla estranea da noi, parcheggiamo la
macchina negli stalli riservati, sosteniamo gite scolastiche dove in carrozzina non
si arriverà mai e osteggiamol’abbattimento delle barriere nel nostro
condominio. E non
puliamo il marciapiede dalle deiezioni del nostro cane. L’altra
sera, guardando
Tu sì que vales all’immancabile esibizione di un
protagonista legato alla disabilità, senza sottilizzare troppo che fosse lì
perché fra tanti che si esibiscono è naturale che alcuni siano disabili
piuttosto che pensare (male) che fosse lì perché la disabilità tira, mi sono riproposto di
non scriverne. E subito ho cambiato idea. Assistendo all'esibizione dei bravi Orchestra Magicamusica, gruppo musicale di persone con disabilità –
ma non bisogna dimenticare che attorno a quelle persone ci sono anche amici,
parenti, insegnanti scolastici e via dicendo -, hanno iniziato a scorrere rivoli di lacrime da
differenti sorgenti: Belen Rodriguez, Iva Zanicchi, il massiccio Martìn Castrogiovanni, Gerry
Scotti. Spontanea sorgiva è affiorata in me una serie di
domande. Può una lacrima essere sincera in televisione? Può
essere indotta, cioè non finta tuttavia provocata? Ma soprattutto:
la lacrima deve per forza condurre all’esito che ci aspettiamo? Prima di un voto deve
per forza preludere a un voto favorevole? E se sì, perché?
Le lacrime prima di un voto
presagiscono una partecipazione narrativa che difficilmente porta ad altro che
a un voto di condivisione di quell’esperienza, è un meccanismo naturale. Vale l’equazione
pianto uguale voto favorevole alla prova. Ma perché piangiamo di
fronte a una manifestazione dolorosa ma vincente della disabilità?
Non lo so, ma azzardo le ipotesi che
mi sono venute in mente assistendo allo spettacolo.
Forse piangiamo per pietismo:
quella disabilità è lontana da noi, ci sembra uno scarto di fronte al quale non
siamo sappiamo fare altro che commiserare, è un naturale atto di ipocrisia
figlio della nostra educazione. Piangiamo e sosteniamo la causa. Forse piangiamo
per pietà:
la compassione, nella sua accezione originale, spinge alla partecipazione,
pertanto proviamo dispiacere per le persone coinvolte e sentiamo il bisogno di
interagire. Il
voto positivo diventa una maniera per dare una mano. Forse
piangiamo per immedesimazione: indossiamo i panni di quella persona,
oppure la eleviamo a nostro emblema, e nella sua capacità di reazione alle
sventure ci sentiamo incoraggiati nelle nostre difficoltà quotidiane, così
diverse ma così altrettanto insostenibili. In questo caso il sostegno a quella
causa diventa materiale di conforto per noi stessi. Votiamo a
favore dell’altro come lo facessimo per incentivarci da soli. Forse, se siamo personaggi
noti, piangiamo perché riconosciamo che l’esistenza è stata prodiga con noi e
quindi ci sentiamo spinti all’altruismo di compensazione, e non che questo sia malvagio, col voto
positivo che ne consegue. Oppure rivestiamo un ruolo e piangiamo perché dobbiamo farlo.
Tanto quanto il ruolo ci obbliga a votare favorevolmente. Che sia amore,
convenienza, senso civico, camuffato disprezzo o copertura del ruolo, non sappiamo cosa
vogliano dire certe lacrime in televisione. E tantomeno possiamo
attribuire un significato alle lacrime sparse ogni giorno di fronte agli altrui
fatti della vita. Sappiamo solo che non sempre rappresentano ipocrisia, il male assoluto.
Tratto da invisibili.corriere.it
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