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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

martedì 22 gennaio 2019

L’inno alla vita di un libro sulla disabilità infantile




Non è sicuramente facile parlare di infanzia e disabilità con lucidità ma anche con trasporto emotivo. Massimo Pesenti, insegnante di filosofia e scienze umane e presidente della Fism di Brescia (La Federazione Italiana Scuole Materne, organismo di area cattolica), affronta questa problematica nel libro ”Tutti i bambini sanno volare”. A cominciare dal momento delicatissimo della scoperta di disfunzioni nel corso della gestazione con la conseguente ardua scelta sul continuare o meno la gravidanza. Certamente, sottolinea Pesenti, la diagnosi prenatale ha portato alla nascita di meno bambini con disabilità. Al netto dei dilemmi morali e deontologici, di fronte alla disabilità l’autore vuole porre l’attenzione sul “ciò che si può fare”, piuttosto che su ciò che è precluso. E lo fa attraverso una serie di storie ed esperienze con un risvolto positivo.
In cui l’esistenza viene animata nel segno dell’amore.
Personalmente mi hanno colpito tre testimonianze. La prima è la vicenda di una bimba con la sindrome di Down, rifiutata dalla mamma e adottata da un single. Un gesto molto coraggioso che da adito a vari spunti di riflessione, in primo luogo l’anomalia rispetto al divieto per legge di un’adozione da parte di persone non sposate. Perché in questo caso è stato possibile? Pesenti ipotizza un’eccezione alla regola per i bambini con disabilità: per i figli “imperfetti” vanno bene anche famiglie” imperfette”, perché “imperfetto più imperfetto uguale Amore perfetto”. Può essere considerata come “eccezione” perché solitamente può adottare un bambino solo una coppia stabile da almeno tre anni; la legge stessa prevede, invece che nel caso in cui il bambino sia affetto da grave malattia o disabilità può essere adottato anche da una persona single. Un’altra storia è quella di Matteo, un bambino autistico, sostenuto dalla propria famiglia e poi dalla scuola, diventato un uomo ben inserito nella società.

E poi la vicenda di Rosaria, vittima alla nascita di un danno neurologico importante, che ha saputo raggiungere un’indipendenza tale da permetterle di guidare lo scooter con il quale si sposta in completa autonomia. Rosaria ha conquistato questo ed altri traguardi nonostante che i suoi genitori siano a volte assaliti da sentimenti di paura e di protezione, atteggiamento che ha finito per ostacolare la sua crescita e il raggiungimento della maturità.

Per noi di Invisibili il tema dell’autonomia è centrale in un discorso sulla disabilità. Tema trattato anche in un post recente . La storia di Rosaria mi è sembrata esemplare su come un’esistenza ordinaria abbia il potere di trasformarsi in straordinaria, se non la si vive solo stando a guardare ma mettendosi in gioco, confrontandosi con la diversità.
Il libro è arricchito da disegni realizzati, nel corso di laboratori artistici, dai bambini delle scuole dell’infanzia e primarie della provincia di Brescia nell’ambito di un concorso scolastico promosso dal Fondo Autisminsieme, in collaborazione con Fondazione Pinac, e che ha riguardato le classi in cui vi fosse una bambina o un bambino con disturbi dello spettro autistico. Un modo per far “parlare” loro, i bambini, su un tema che li riguarda.

Tutto il ricavato della vendita del libro (che costa 10 euro) è devoluto al Fondo RED, Risorse Educative per la Disabilità, finalizzato all’inclusione delle bambine e dei bambini con disabilità nelle scuole dell’infanzia e primaria (www.fondored.it)





Tratto da invisibili.corriere.it

mercoledì 9 gennaio 2019

C'è bisogno d'amore



Eccoci al 31 dicembre, il giorno dei bilanci soprasseduti all’istante. E ben trovato il successivo giorno dei buoni propositi dell’anno passato. Nella convenzionale ballata degli appuntamenti di fine anno aggiungo le mie evoluzioni a partire dal video della giovane giornalista Alessia Bottone Ieri come oggi. Storie di conciliazione lavoro-famiglia. Forse ci scapperà una lacrima.
Il video di Alessia, evidenzia bisogni e desideri delle famiglie moderne e la bella risposta che la società fornisce, quando c’è. Lo spezzone dedicato alla disabilità, visibile dal minuto 27, spiega bene il concetto in chiave disabilità: la mamma di una ragazza nata disabile riesce a mantenere il proprio lavoro con qualche sussulto ma, quando il marito non è più in grado di fornire il suo indispensabile aiuto alla famiglia per un problema agli occhi, le arriva il sostegno dell’azienda dove lavora la moglie, che accoglie senza indugi la concessione del part-time lavorativo.
Una storia da film natalizio. I tormenti e la speranza, da un canto. Dall’altra un’ottima azienda e la risposta alla speranza. Non è sempre così. Tante madri – e padri, ma anche mogli, mariti, fratelli e congiunti vari – abbandonano il lavoro per dedicarsi completamente all’amato con disabilità, perché non hanno alternative, e nel video se ne parla. Coppie si disgregano, anche. Basterebbe una risposta collettiva diversa alle questioni delle persone disabili. Una risposta di conciliazione nell’interesse comune.
Propongo un punto di vista, una epifania antropologica nota ma da riproporre. Tale manifestazione di pensiero, appunto epifania, mi tocca personalmente. Sia perché mi avvolge quotidianamente come persona disabile e sia perché avviluppa altre famiglie che conosco. Famiglie con disabilità alle prese con il proprio sé.
Mettiti nei panni di un familiare che sa che un elemento del gruppo ha bisogno. Che fai? Sai che è indifeso, che senza la costante presenza di una persona, almeno una, al suo fianco è finito: non può comunicare, non può bere, se gli va qualcosa di traverso lo vedi soffrire, cambiare colore, volere dirti qualcosa e non sapere come fare. Cosa fai? Hai sufficiente spregio dell’altro da restare inerme come il più atroce degli indifferenti?
Non ce la fai. Intervieni, e non una volta ma ogni volta che serve. Cioè pressoché sempre. E nella perpetuazione della tua scelta inevitabile il tuo lavoro rischia di andare a ramengo perché due cose al contempo non sempre puoi farle. Che già per fare quella che fai devi trovare la gabola per stare col tuo congiunto senza mollarlo e contemporaneamente andare per uffici a sbrigare pratiche, fare la spesa, comprare vestiti e atti di diversificata corvée.
Altre persone ti danno una mano, e si chiamano familiari. Ma come te non c’è nessuno perché tu sai che nessuno al pari di te conosce quella persona. Avete costruito una simbiosi unica. Siete così solidali che a un certo punto ti sei dimenticato di avere un te stesso di cui occuparti. Non fa niente, va bene così.
C’è gente che pensa che questa non sia vita. Ma tu sai che non è vero. Hai imparato ad apprezzare la vita per quello che è e a ricavarti i tuoi momenti di gaudio. Ciò non toglie che avresti gradito meno tortuosi percorsi per raggiungere la consapevolezza della felicità. Un aiuto ti farebbe piacere.
Ma, connotazione agghiacciante, nella tua consapevolezza sei conscio di non essere eterno. Ne soffri. Pensi al dopo, a quando non sarai in grado di fare quello che stai facendo o non ci sarai più. E scacci questi pensieri brutti. Questo sei tu. Nella gran parte dei casi delle famiglie con persone con disabilità succede così. E succede non a un solo elemento, ma a più persone, a loro modo uniche e insostituibili. Madri e padri indispensabili al contempo, consapevoli della potenza della loro unione e dentro di sé consci dell’unicità del proprio ruolo.
Ma non è tutto. C’è il controcanto. C’è la persona che riceve l’aiuto, che pure ha un punto di vista, fatto di osservazioni, conoscenza, sentimenti. Una voce che resta inespressa perché non trova la forza, la sfrontatezza, di venire fuori. E certe volte, quando la trova, si disperde in silenzio, sottovalutata o paurosamente respinta.
È la mia voce, quella di me che ti guardo morir di fatica per me. Vorrei che non fosse così, ma non c’è alternativa. Ho bisogno di cibo, devi essere tu a imboccarmi. Ho bisogno di una coperta, coprimi. Mi serve fare pipì, pensaci tu.
Provo un profondo senso di frustrazione, di vergogna, per avere bisogno di te che già tanto per me fai. Vorrei essere io ad aiutarti. A porgerti una tazzina di caffè quando sei stanco. Mi addolora ricevere passivamente. Non mi è sufficiente sapere che fai per amore, o per eccelso senso del dovere. Ma mi convinco. Lo accetto. Non ho alternative.
Si chiude l’anno. Ne inizia uno nuovo. Penso dobbiamo trovare un maggiore senso dell’appartenere. La nazione è una famiglia allargata. C’è bisogno d’amore.

Per vedere il video:

Tratto da invisibili.corriere.it


mercoledì 2 gennaio 2019

SIAMO UNA COMUNITÀ' DI VITA E UN PAESE RICCO DI SOLIDARIETA'


Messaggio di fine anno del presidente della Repubblica con ampio spazio destinato alla riflessione sulla condivisione di valori, prospettive, diritti e doveri che uniscono tutti gli italiani: “Non dobbiamo avere timore a manifestare sentimenti che rendono migliore la nostra società”

ROMA – L'invito a non avere nessun timore a manifestare quei buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società, la sottolineatura dell'Italia come di un paese ricco di solidarietà, dove la società civile è arrivata con più efficacia e con più calore umano delle istituzioni pubbliche. E' l'Italia che “ricuce”, l'Italia positiva, quella che dà fiducia, come fanno le realtà del terzo settore e del non profit, al centro del messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quattordici minuti, dal Quirinale, per parlare “dell'esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita”.
 “Sentirsi 'comunità' – scandisce Mattarella - significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa 'pensarsi' dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità, perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande, protagonista del futuro del nostro Paese. Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri. Vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e nel battersi, come è giusto, per le proprie idee rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore”.
Ed ecco il lungo passaggio dedicato ai “valori coltivati da chi svolge seriamente, giorno per giorno, il proprio dovere; quelli di chi si impegna volontariamente per aiutare gli altri in difficoltà. Il nostro è un Paese ricco di solidarietà. Spesso la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni. Ricordo gli incontri con chi, negli ospedali o nelle periferie e in tanti luoghi di solitudine e di sofferenza dona conforto e serenità. I tanti volontari intervenuti nelle catastrofi naturali a fianco dei Corpi dello Stato. È l’Italia che ricuce” e che dà fiducia. Così come fanno le realtà del Terzo Settore, del No profit che rappresentano una rete preziosa di solidarietà”. “Si tratta – continua Mattarella - di realtà che hanno ben chiara la pari dignità di ogni persona e che meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli, degli emarginati, di anziani soli, di famiglie in difficoltà, di senzatetto. Anche per questo vanno evitate 'tasse sulla bontà', è l’immagine dell’Italia positiva, che deve prevalere”, dice con fugace riferimento alle polemiche che hanno accompagnato le misure della manovra economica che penalizzano il non profit e sulle quali il governo ha garantito una riparazione nel primo provvedimento utile del 2019.
 “Ho conosciuto in questi anni – dice Mattarella in un altro passaggio - tante persone impegnate in attività di grande valore sociale; e molti luoghi straordinari dove il rapporto con gli altri non è avvertito come un limite, ma come quello che dà senso alla vita. Ne cito uno fra i tanti ricordando e salutando i ragazzi e gli adulti del Centro di cura per l’autismo, di Verona, che ho di recente visitato. Mi hanno regalato quadri e disegni da loro realizzati. Sono tutti molto belli: esprimono creatività e capacità di comunicare e partecipare. Ne ho voluto collocare uno questa sera accanto a me. Li ringrazio nuovamente e rivolgo a tutti loro l’augurio più affettuoso”.

Tratto da SuperAbile INAIL

domenica 23 dicembre 2018


IL CONSIGLIO DIRETTIVO, I RAGAZZI CON LE RISPETTIVE FAMIGLIE, I SOCI, I VOLONTARI AUGURANO BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO A TUTTI COLORO CHE SONO VICINI ALL'ASSOCIAZIONE INHOLTRE.


domenica 2 dicembre 2018

IL MERCATINO DELLA SOLIDARIETA'


L'associazione di Volontariato InHoltre organizza una mostra mercato di oggetti di Natale realizzati dai ragazzi di InHoltre con la collaborazione dei volontari. La mostra mercato dal titolo "Il mercatino della solidarietà" ha come fine, oltre alla sensibilizzazione e al coinvolgimento del territorio sulle tematiche della disabilità, una raccolta fondi per finanziare i progetti dell'associazione. Saremo all'esterno del salone chiesa di Lavandara sabato 1 dicembre dalle ore 17.00 alle ore 19.00 e domenica 2 dicembre dalle ore 10.00 alle ore 13.00. 
VI ASPETTIAMO!!!!!

lunedì 26 novembre 2018

Mattarella paladino (quasi) solitario del giusto linguaggio


Sin da quando ascoltai alla radio il suo discorso in Parlamento in avvio di mandato, del presidente Sergio Mattarella mi colpì l’attenzione alle parole, il soppesarle con una pacatezza che oggi potrebbe rischiare di apparire grigia se non addirittura noiosa in un mondo mediatico di chiasso e di battute a effetto e che invece mi sembrò subito un provvidenziale rifugio, un conforto nel segno del rispetto. Parlò, il presidente, di persone con disabilità, e in quella preposizione, quel “con”, c’era tutta l’attenzione a un linguaggio che si evolve e che considera le persone in quanto esseri umani, prima della loro condizione. Locuzione affermata e sancita nella carta dei diritti stilata dall’Onu riguardo al mondo della disabilita. E’ un tema ricorrente, quello del linguaggio, che ci trova in prima linea sin dall’epoca del nostro amato e rimpianto Franco Bomprezzi (fra poco saranno quattro anni dalla sua scomparsa) che scrisse su questo blog un efficacissimo post per chiarezza e ironia, rivolto al nipote di Umberto Eco, destinatario di una delle celebri Bustine di Minerva, in cui il grande semiologo rifletteva sulle persone “diversamente abili”. Come dire, anche i più grandi uomini di cultura possono essere in ritardo su certi temi della società. Ancora una volta Mattarella è tornato a parlare di persone con disabilità in occasione dell’inserimento nell’enciclopedia Treccani di un lemma importante, paralimpico, entrato in questa grande famiglia lessicale fin troppo tardi ma certo spinto da un movimento che è emerso con grande forza e ha conquistato anche le platee mediatiche di tutto il mondo. Potere dello sport che resta il più grande veicolo di fratellanza in un mondo segnato da divisioni e contrapposizioni. “Le parole- ha detto il presidente – possono aiutare o creare un danno. La scelta è nostra. Basta fare un giro sul web per capire che ci sono parole che aiutano e costruiscono e parole che offendono e distruggono “. Ma al di la delle cattiverie e degli insulti che si moltiplicano sulla rete e hanno una valenza criminale, ci sono a nostro avviso parole apparentemente più innocue ma che denotano una mancanza di attenzione e in definitiva una buona dose di indifferenza. Ed è in questo terreno più grigio che bisogna agire. Senza crociate, beninteso, perché nessuno è senza macchia e in definitiva tutti noi siamo chiamati a una buona pratica che faccia crescere un movimento e tutta la società. Ma con convinzione. E’ un processo silenzioso che il presidente Mattarella ha dimostrato di capire in ogni circostanza. Per questo ci permettiamo di considerarlo nostro mentore e nostro alleato.
Tratto da Invisibili.corriere.it

venerdì 19 ottobre 2018

BREVE ANALISI DELLA LACRIMA DA TALENT

 di Antonio Giuseppe Malafarina

Non tutte le lacrime sono uguali. Oggi torno a scrivere di antropologia della disabilità. Un parolone, anzi due, per riflettere con linguaggio facile sull’effetto lacrima da reazione a quello che sulla disabilità passa in tv nei talent. Non sono un dottore della psiche. Mi limito a qualche pensiero che credo possa venire a tutti. In passato ho affrontato il tema delle emozioni da poltrona.
Era un pezzo sulla coerenza di chi guarda le esibizioni di certi partecipanti con disabilità ai talent, apprezza, si commuove, esulta e uscito dagli studi televisivi, allontanato dallo schermo e mollato il telefonino del televoto, riprende a condurre la sua vita di ordinario bistrattamento dei diritti delle persone disabili. Lontano dallo schermo, che ci avvicina a una storia ma ci tiene lontano quanto basta per lasciarla estranea da noi, parcheggiamo la macchina negli stalli riservati, sosteniamo gite scolastiche dove in carrozzina non si arriverà mai e osteggiamol’abbattimento delle barriere nel nostro condominio. E non puliamo il marciapiede dalle deiezioni del nostro cane. L’altra sera, guardando Tu sì que vales all’immancabile esibizione di un protagonista legato alla disabilità, senza sottilizzare troppo che fosse lì perché fra tanti che si esibiscono è naturale che alcuni siano disabili piuttosto che pensare (male) che fosse lì perché la disabilità tira, mi sono riproposto di non scriverne. E subito ho cambiato idea. Assistendo all'esibizione dei bravi Orchestra Magicamusica, gruppo musicale di persone con disabilità – ma non bisogna dimenticare che attorno a quelle persone ci sono anche amici, parenti, insegnanti scolastici e via dicendo -, hanno iniziato a scorrere rivoli di lacrime da differenti sorgenti: Belen Rodriguez, Iva Zanicchi, il massiccio Martìn Castrogiovanni, Gerry Scotti. Spontanea sorgiva è affiorata in me una serie di domande. Può una lacrima essere sincera in televisione? Può essere indotta, cioè non finta tuttavia provocata? Ma soprattutto: la lacrima deve per forza condurre all’esito che ci aspettiamo? Prima di un voto deve per forza preludere a un voto favorevole? E se sì, perché?
Le lacrime prima di un voto presagiscono una partecipazione narrativa che difficilmente porta ad altro che a un voto di condivisione di quell’esperienza, è un meccanismo naturale. Vale l’equazione pianto uguale voto favorevole alla prova. Ma perché piangiamo di fronte a una manifestazione dolorosa ma vincente della disabilità?
Non lo so, ma azzardo le ipotesi che mi sono venute in mente assistendo allo spettacolo.
Forse piangiamo per pietismo: quella disabilità è lontana da noi, ci sembra uno scarto di fronte al quale non siamo sappiamo fare altro che commiserare, è un naturale atto di ipocrisia figlio della nostra educazione. Piangiamo e sosteniamo la causa. Forse piangiamo per pietà: la compassione, nella sua accezione originale, spinge alla partecipazione, pertanto proviamo dispiacere per le persone coinvolte e sentiamo il bisogno di interagire. Il voto positivo diventa una maniera per dare una mano. Forse piangiamo per immedesimazione: indossiamo i panni di quella persona, oppure la eleviamo a nostro emblema, e nella sua capacità di reazione alle sventure ci sentiamo incoraggiati nelle nostre difficoltà quotidiane, così diverse ma così altrettanto insostenibili. In questo caso il sostegno a quella causa diventa materiale di conforto per noi stessiVotiamo a favore dell’altro come lo facessimo per incentivarci da soli. Forse, se siamo personaggi noti, piangiamo perché riconosciamo che l’esistenza è stata prodiga con noi e quindi ci sentiamo spinti all’altruismo di compensazione, e non che questo sia malvagio, col voto positivo che ne consegue. Oppure rivestiamo un ruolo e piangiamo perché dobbiamo farlo. Tanto quanto il ruolo ci obbliga a votare favorevolmente. Che sia amore, convenienza, senso civico, camuffato disprezzo o copertura del ruolo, non sappiamo cosa vogliano dire certe lacrime in televisione. E tantomeno possiamo attribuire un significato alle lacrime sparse ogni giorno di fronte agli altrui fatti della vita. Sappiamo solo che non sempre rappresentano ipocrisia, il male assoluto.
Tratto da invisibili.corriere.it

lunedì 17 settembre 2018


Di Antonio Giuseppe Malafarina


Ho provato a parlare con Dio, ma mi risulta irraggiungibile. Diversamente non so come potrei fare per accontentare quelli che dicono che tutto è possibile. Sono molti. Molte persone con disabilità. L’ultima, detta un po’ con altre parole, l’ho letta attribuita a Tae McKenzie, modella in sedia a rotelle con una grave forma di epilessia. Ha sfilato con Marian Avila, modella spagnola con sindrome di Down, alla Fashion Week di New York. Merito della stilista Talisha White e della sua idea di portare in passerella la diversità, con una linea concepita per esaltare l’emancipazione femminile.
Se Dio, nella sua onnipotenza, si intende di moda o non mi ha mai preso in considerazione perché sono scarso come ideatore di moda oppure perché non piaccio all’obiettivo. Potrebbe anche essere che all’orecchio non sia mai giunta la mia prece: da un ventennio cerco di fargli capire che le persone con disabilità hanno diritto a vestirsi alla moda. E, in questa conversazione, che io potessi offrirmi come vittima sacrificale per la passerella, diciamocelo, gliel’ho buttata lì.
Vent’anni non sono un giorno. Nella storia raccontata sul Corriere la stilista parla del valore della diversità e di qualcosa che comincia a muoversi. Gli stilisti prendono in considerazione le persone con disabilità. Non è una novità. Ne ho parlato più volte. Ci sono state sfilate persino a Milano, anche se appena dopo la chiusura della settimana della moda. Si è mossa gente come Tonino Urzì, una firma per cui basta il nome. Non basta? Ecco Tommy Hilfiger, con una linea accuratamente studiata per clienti disabili.
Le persone con disabilità sono clienti. Questo dovrebbe capire la moda. Va bene sfilare e mettersi in vetrina ma ci vuole uno scatto dell’industria. Costa, ahimè. Intanto dobbiamo accontentarci di avere modelle che sfilano. Modelle e modelli.
E qui l’investimento iniziale è ai limiti della sostenibilità: bisogna concedere più spazio a chi vuole sfilare con disabilità, non solo in carrozzina – che poi c’è il rischio che non si capisca che sia disabile e allora tu, stilista, che tornaconto hai avuto a farlo sfilare? -. Ci vuole lo stilista che ci creda. E tutto il mondo che c’è dietro. Le acque si muovono. Esistono bei modelli con disabilità. Ma finché saranno modelli con disabilità saranno modelli con quel con in più che dovrebbe passare inosservato. Forse un giorno sarà possibile. Capito Dio??

Tratto da: invisibili.corriere.it