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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

mercoledì 18 dicembre 2013


AUGURI





Non aspettare di finire l'università,
di innamorarti, di trovare lavoro,
di sposarti, di avere figli,
di vederli sistemati,
di perdere quei dieci chili,
che arrivi il venerdì sera o la domenica mattina,
la primavera, l'estate,
l'autunno o l'inverno.
Non c'è momento migliore di questo per essere felice.
La felicità è un percorso, non una destinazione.
Lavora come se non avessi bisogno di denaro,
ama come se non ti avessero mai ferito e balla, 
come se non ti vedesse nessuno.
Ricordati che la pelle avvizzisce,
i capelli diventano bianchi e i giorni diventano anni.
Ma l'importante non cambia: 
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è il piumino che tira via qualsiasi ragnatela.
Dietro ogni traguardo c'è una nuova partenza.
Dietro ogni risultato c'è un'altra sfida. Finché sei vivo, sentiti vivo.
Vai avanti, anche quando tutti si aspettano che lasci perdere.

Madre Teresa di Calcutta

Ai volontari, ai soci, alle famiglie e a tutti gli amici di InHoltre.
GRAZIE!!!!!

AUGURI PER UN GIOIOSO NATALE
E PER UN FANTASTICO 2014

I ragazzi di InHoltre

venerdì 13 dicembre 2013

"MISSIONE NATALE... Per un mondo che si apre"

ISTITUTO COMPRENSIVO MOTTA SAN GIOVANNI

SCUOLA PRIMARIA E DELL'INFANZIA G. MALLAMACI 
 MOTTA SAN GIOVANNI 

ASSOCIAZIONE DI VOLONTARIATO 
INHOLTRE

MERCATINO ARCOBALENO

Nel corso della manifestazione InHoltre allestirà una mostra di quadri e uno stand dimostrativo con degli oggetti realizzati dai nostri ragazzi. 
Nel corso della serata dolci, musiche e canti natalizi.
SIETE TUTTI INVITATI.
 
DIVERTIMENTO ASSICURATO!!!!!!!!!!
 
 
 


martedì 3 dicembre 2013

GIORNATA INTERNAZIONALE DELLE PERSONE CON DISABILITA'



La Giornata internazionale delle persone con disabilità è un evento ufficialmente promosso dall'ONU fin dal 1998. Viene celebrata nella data del 3 dicembre ed ogni anno è focalizzata su un tema differente. Circa il 10-15 per cento della popolazione mondiale, pari a 700 milioni/1 miliardo di persone, ha una disabilità. In tutto il mondo le persone con disabilità affrontano ostacoli alla partecipazione sociale, barriere architettoniche, pregiudizi culturali, negazione dei diritti umani e civili. L'ottanta per cento delle persone con disabilità (più di 400 milioni di persone) vive nei paesi poveri: disabilità e povertà sono strettamente legate e sono ciascuna la causa dell'altra. I due ambiti in cui è più grave la compressione dei diritti della persona con disabilità sono l'istruzione e la salute. Il novanta per cento dei bambini con disabilità dei paesi in via di sviluppo è escluso dalla scuola. Circa 20 milioni di donne sono disabili a causa di complicazioni della gravidanza o del parto.

Le Nazioni Unite e la comunità globale devono assicurare che ogni opera, istituzione, servizio di qualunque genere rivolto al pubblico siano pienamente inclusivi verso le persone con disabilità. Anche gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio devono essere inclusivi: essi non potranno infatti essere mai raggiunti se le persone con disabilità non vi saranno incluse, sia come beneficiari che come attori in prima persona del cambiamento sociale.
La Giornata internazionale delle persone con disabilità è anche un'occasione per rinnovare l'impegno per la ratifica e la piena implementazione della Convenzione sui Diritti delle Persone con disabilità.
Uno degli obblighi fondamentali previsti dalla Convenzione è che la legislazione nazionale deve garantire il pieno godimento dei diritti elencati nella Convenzione. La sua ratifica da parte degli stati non può dunque rimanere formale, ma deve obbligatoriamente tradursi in un processo teso a rendere pienamente inclusiva tutta la legislazione di ogni stato aderente. Non solo: gli Stati dovranno impegnarsi ad attuare politiche, programmi e pratiche che abbiamo un impatto reale e misurabile sulla vita delle persone con disabilità. Inoltre, è fondamentale garantire alle persone con disabilità e alle loro organizzazioni la piena partecipazione alla vita politica, attraverso istituzioni che includano i loro rappresentanti nei meccanismi della vita politica nazionale e locale.
La Giornata mira a promuovere una comprensione del tema della disabilità e sostenere il riconoscimento della dignità, dei diritti e del benessere delle persone con disabilità. Inoltre mira ad aumentare la consapevolezza dei vantaggi offerti alla società dall'integrazione delle persone con disabilità in ogni aspetto della vita politica, sociale, economica e culturale.


lunedì 25 novembre 2013

Donne disabili, discriminazioni e violenza

Alcune analisi, riflessioni e proposte in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre) e della Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità (3 dicembre)
 
 Le donne con disabilità sono discriminate sia in quanto donne, sia in quanto persone con disabilità, e lo sono maggiormente se appartengono a minoranze etniche, linguistiche o religiose. La violenza nei loro confronti attinge a un pregiudizio di genere, e cioè alla mancanza di parità di uguaglianza tra uomo e donna, cui si aggiunge la considerazione stereotipata relativa al corpo della donna disabile, percepito in genere come “asessuato”, “anormale” o “malato”.
Ne consegue la negazione di titolarità di diritti, sia come donne, sia come madri che amiche o professioniste. Questa doppia discriminazione è causa di varie forme di violenza – alcune esplicite, altre subdole – difficili da identificare e combattere, perché spesso si verificano in ambienti familiari o di cura e si manifestano con modalità non rientranti nella generale e consueta categoria di violenza. Ad esempio, il diritto alla salute per le donne con disabilità è condizionato dall’accessibilità dei servizi sanitari e la discriminazione si può manifestare – per citare un caso – quando, richiedendo prestazioni come la mammografia e il pap test, si trovano strumenti diagnostici non adatti per chi ha problemi di mobilità o di equilibrio, cosicché la difficoltà nel mantenere la posizione adatta o lo spostamento sul lettino ginecologico – uniti alla scarsa professionalità del personale sanitario – spesso rendono questi screening umilianti e imprecisi, con l’unico effetto di diventare un deterrente alla prevenzione e alla cura. 
Cerchiamo di immaginare cosa succede da un punto di vista pratico se la disabilità è intellettiva. I processi sanitari subiscono una battuta di arresto e si opera alla meno peggio. In questi casi si parla di “paziente non collaborante” (e qui bisognerebbe aprire un intero doloroso capitolo). Da una ricerca dell’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, emergono altri aspetti allarmanti relativi alla violenza nei confronti delle donne e ragazze con disabilità. In Europa 1.200.000 persone con disabilità vivono permanentemente in istituti (150.000 bambini/e), senza il diritto di una partecipazione alla vita ordinaria, come invece accade agli altri cittadini europei.
Secondo poi un rapporto del Parlamento europeo, circa l’80% delle donne istituzionalizzate sono esposte al rischio di violenza, spesso compiuta proprio dalle persone che dovrebbero prendersi cura di loro. E ancora, in Germania uno studio commissionato dal Ministero per la Famiglia rivela che migliaia di donne istituzionalizzate – con disabilità intellettiva – hanno subito abusi sessuali (fonte: Der Spiegel online, 14 febbraio 2012). C’è poi un altro tipo violenza, quella cioè che si rivela nella negligenza assistenziale, nel trascurare i tempi dei bisogni primari individuali – come lavarsi, vestirsi o mangiare – nel controllare e limitare la comunicazione con l’esterno, senza ascoltare le richieste personali e restringendo, inoltre, le possibilità di incontro con familiari e amici. In tali ambiti può anche accadere che donne anziane e/o con disabilità psicosociali vengano sottoposte – senza il loro consenso – a trattamenti inaccettabili come l’elettroshock e purtroppo, in alcuni paesi, sopravvivono pratiche di sterilizzazioni forzate, nonostante la Convenzione Onu ribadisca il diritto per la persona con disabilità di decidere su tutti gli aspetti della propria vita, compresi i trattamenti sanitari (articolo 12).
Denunciare questi abusi non è facile. Le donne con disabilità sono totalmente dipendenti da chi ha perpetrato loro la violenza e il timore di perdere il sostegno di cui hanno bisogno ostacola il ricorso alla giustizia. L’accesso alla giustizia non è comunque agevole, sia per una scarsa consapevolezza dei propri diritti, sia per la mancata conoscenza dei mezzi per ottenerla e, laddove viene riconosciuta la capacità giuridica per avviare il procedimento, spesso si mette in dubbio la credibilità e l’attendibilità della testimonianza. Come è accaduto un anno fa a Soweto, in Sudafrica, ove una ragazza con disabilità di 17 anni è stata rapita, sequestrata e violentata per giorni da un gruppo di sette ragazzi tra i 14 e i 20 anni, che hanno filmato e poi divulgato sul web le loro violenze. La vittima aveva già subito abusi dall’età di 12 anni, ma, nonostante la madre lo avesse denunciato, la ragazza non era stata creduta, a causa della sua disabilità intellettiva e delle condizioni di povertà della famiglia (fonte: Cnn, 19 aprile 2012).
Cruciale, pertanto, è dare visibilità alle multidiscriminazioni subite dalle donne con disabilità, favorendo una maggiore rappresentatività dei loro diritti sia a livello politico-istituzionale che all’interno delle associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani. Ed è anche auspicabile una stretta cooperazione tra le organizzazioni delle persone con disabilità e il movimento delle donne, per richiedere agli organismi legislativi e amministrativi competenti le azioni necessarie attinenti il genere e la disabilità, garantendo l’accesso all’istruzione, alla formazione, al lavoro, alla salute e al diritto di decidere su sessualità, gravidanza e adozione. La Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, all’articolo 6 (Donne con disabilità), pone una particolare attenzione alle donne con disabilità, riconoscendole come persone esposte a rischio di violenza, maltrattamenti e abusi e raccomandando agli Stati di adottare misure amministrative e legislative per identificare e denunciare gli atti di violenza (articolo 16), con la garanzia dell’accesso a servizi di protezione sociale (articolo 28).

Fonte: LucidaMente

lunedì 11 novembre 2013

Falsi ciechi? No, persone normali che vivono nonostante la disabilità

La Fondazione Lucia Guderzo di Loreggia (Pd) sta raccogliendo video-storie per testimoniare come, pur essendo non vedenti, si possa lavorare e mantenere la propria autonomia. I filmati inviati a tutte le sedi della Guardia di Finanza.

 LOREGGIA (Padova) - Pietro Rivella, 80 anni, è cieco da quando ne aveva 25 e conduce a Jesolo con successo la sua attività di albergatore. Felice Tagliaferri è uno scultore di Bologna che vive grazie alle sue creazioni. Don Gerardo è un parroco musicista della provincia di Perugia. Le loro sono solo alcune delle 17 video-storie finora raccolte dalla Fondazione Lucia Guderzo di Loreggia, in provincia di Padova, per lanciare forte e chiaro un messaggio: “Non siamo speciali, siamo normali!”. Storie di normalità, appunto, per sfatare il luogo comune che essere ciechi significhi non poter essere autonomi e non poter coltivare aspirazioni e passioni.

Si può essere avvocati e insieme portare avanti l’azienda agricola di famiglia, sporcandosi le mani con la terra: lo dimostra l’avvocato Ghione di Saluzzo. “Tutti i lavori, a eccezione della guida delle macchine, li faccio io, orientandomi con gli altri sensi” racconta nel video. Ornella Longo e Michela Martini - una impiegata, l’altra casalinga -, sono due mamme che testimoniano come si possa gestire casa e famiglia pur non vedendo. L’iniziativa nasce per contrastare le accuse di finzione rivolte troppo spesso alle persone non vedenti, solo perché autonome. “Il fraintendimento nasce dall’idea diffusa dall’Unione italiana ciechi, che a forza di dire che la cecità è una cosa gravissima ha ingenerato nell’opinione pubblica l’idea che una persona non vedente non possa far nulla - spiega il presidente della Fondazione, Davide Cervellin -. Perciò abbiamo voluto che una delle prime attività della nostra fondazione, impegnata a favorire l’autonomia delle persone disabili, fosse di raccontare la vita delle persone cieche nei piccoli gesti quotidiani”. La storia di Rivella, per dirne una, è “l’esempio lampante di come si possa davvero avere successo nella vita, con impegno e dedizione. La disabilità non è un alibi per non fare, ma un motivo in più per fare”.
E per assicurarsi che il messaggio arrivi forte e chiaro a chi di dovere, la Fondazione ha inviato i filmati a tutte le guardie di finanza, “che in qualche caso segnalando falsi ciechi ha preso un abbaglio – precisa il presidente -, perché appoggiare correttamente la tazzina del caffè sul piattino non vuol dire che si è in grado di vedere”. I video, curati da Cervellin nella sceneggiatura e realizzati dal video maker Graziano Roana, stanno raccogliendo centinaia di visualizzazioni su Facebook, ma dalla Guardia di finanza a oggi non c’è stato alcun riscontro. Il prossimo obiettivo è di diffondere il materiale nelle scuole in occasione della giornata mondiale della disabilità del 3 dicembre.
© Copyright Redattore Sociale

giovedì 17 ottobre 2013

Cosa significa in Italia essere madre di un autistico

Una donna di 50 anni ha accoltellato oggi il figlio disabile di undici anni.
 
GIANLUCA NICOLETTI
Non può esserci commento possibile alla notizia di una madre che accoltella il figlio di undici anni. Non basta appigliarsi alla scarna formula da lancio d’agenzie che informa vagamente che “soffriva di depressione”, a meno di voler correre il rischio di somigliare agli opinionisti da salottino tv, quelli che hanno l’espressione compunta davanti ai plastici di baite di montagna, alle copie di mannaie, alle foto di pavimenti con macchie ematiche.   
Non è invece secondario il fatto che il bambino fosse autistico, l’elemento più delicato e “sensibile” che è trapelato dal riserbo necessario attorno alla vicenda. Oggi è d’ uso un generalizzare diffuso, quanto scellerato, che mette in rapporto l’ autismo con episodi di cruda cronaca, quindi non pongo al momento in cui scrivo l’ assoluta certezza che in realtà fosse quello il disturbo di cui soffrisse la vittima di quell’ atto di disperato furore.   
Posso in coscienza sentirmi di dire, sulla mia personale esperienza familiare, che se il bambino di Promano è in realtà autistico, comprendo la depressione della madre, anche se naturalmente non giustifico minimamente il suo gesto.  
Per una madre che viva in Italia non esistono, almeno al momento e per quello che io ho avuto modo di conoscere, molte situazioni altrettanto angosciose che dovere gestire un figlio autistico, alla soglia dell’ adolescenza. Nel nostro paese l’ approccio a una sindrome, che si pensa debba interessare (pare) seicentomila persone, è assolutamente irrazionale e superficiale. La dice lunga il fatto che siamo l’ unico paese che ai convegni internazionali non sia in grado di fornire dati certi su quanti siano effettivamente gli autistici, quale sia il livello di soddisfazione delle famiglie che debbono gestirne un caso, quale sia il destino di questi ragazzi una volta maggiorenni.  
Quella madre sarà giudicata da chi è preposto a farlo, ma non possiamo perdere questa occasione per aprire una seria riflessione su quale sia il profondo senso di abbandono in cui si trova una famiglia che deve gestire un autistico, senza interlocutori certi e informati, senza che ci siano protocolli di abilitazione ufficializzati e applicati su tutto il territorio nazionale ( le linee guida emanate due anni fa dall’ I.S.S. ancora non sono state tramutate in legge e nessuno sembra interessato concretamente che questo avvenga).  
 In tutto questo resta, mellifluo e impalpabile, ma crudelmente lancinante, l’ antico pregiudizio che le madri abbiano concrete responsabilità sulla disabilità del figlio. Pochi lo ammettono, ma ancora viene chiesto a molte mamme di autistici  se durante l’ allattamento avessero guardato negli occhi il figlio. L’ autismo in Italia, fatte salve alcune straordinarie eccellenze, è ancora istituzionalmente appannaggio di pressapochismo, ignoranza, superstizione.  
Il peso maggiore  di un problema così esteso, che rappresenta statisticamente la prima causa di disabilità, grava sulle famiglie. Nuclei familiari che lentamente vanno in disfacimento , dove le madri, ancor di più, restano sole a gestire un amatissimo vampiro, che allo stesso tempo è il loro carceriere e il loro sorvegliato speciale.  
Tutto questo non giustifica le coltellate, ma serve a distribuire almeno la responsabilità di alcuni impazzimenti materni.
Tratto da LA STAMPA.it

domenica 13 ottobre 2013

I sacramenti sono davvero per tutti? Ecco l'inchiesta sulle parrocchie "accessibili"

L'inclusione delle persone disabili nella Chiesa resta ancora lontana, anche se papa Bergoglio continua a indicarla, soprattutto con i gesti concreti. Ne parla il mensile SuperAbile Magazine di ottobre. Un papà spiega: "Il problema va visto a 360 gradi: forse manca l'accoglienza in generale, che richiede sensibilità, coscienza, disponibilità, preparazione. E amore, prima di tutto"
Papa Francesco abbraccia un ragazzo disabile
ROMA - Alcuni bambini autistici hanno ricevuto la prima comunione a Treviso, nel maggio scorso. Una giornata indimenticabile per Giampietro, Ottavio e Federica, che si sono ritrovati con le loro famiglie e alcuni amici nella chiesa della Madonnetta a Santa Maria del Rovere. Sembrerebbe un evento scontato e invece no: a Napoli una mamma di un ragazzo con autismo si è vista rifiutare il sacramento per suo figlio, ancora non pronto a riceverlo secondo il parroco. Quindi i sacramenti sono davvero accessibili alle persone disabili credenti che chiedono di riceverli? Affronta il tema un'inchiesta sul numero di ottobre del mensile SuperAbile Magazine.
I tre ragazzi trevigiani si sono preparati in maniera particolare all'evento. Anzitutto il parroco, don Adelino Bortoluzzi, ha accolto con disponibilità la richiesta di un gruppo di genitori della Fondazione Oltre il labirinto. Inoltre è stato cruciale il supporto dello psicologo Stefano Castiglione, che "ha preparato i ragazzi a questo momento" con un percorso di avvicinamento al sacramento, riferisce Alberto Cais, presidente della fondazione. "Per chi ha una sindrome autistica le celebrazioni sono spesso difficili da gestire. Quindi la cerimonia è stata studiata nei minimi particolari e sapientemente tarata: dalla scelta delle musiche all'omelia breve ma incisiva", evidenzia Mario Paganessi, padre di Giampietro e direttore generale di Oltre il labirinto.
Prime comunioni a Treviso.
Anche Arturo Mariani, universitario diciannovenne nato senza una gamba, non ha avuto problemi ad accedere ai sacramenti ma una corsia preferenziale, per così dire: la sua catechista era la madre Gianna, ora alle prese con l'inserimento di una bambina Down nel gruppo di cresima. "Sicuramente sono importanti gli stili con cui si fa catechesi, spesso ancora ancorata a metodi scolastici", osserva Stefano, padre di Arturo e membro con la moglie dell'Ordine francescano secolare a Guidonia, in provincia di Roma ma diocesi di Tivoli. Che si chiede: "Come rendere le comunità ecclesiali ancora più inclusive e accoglienti nei confronti delle persone disabili? Il problema va visto a 360 gradi: forse manca l'accoglienza in generale, che richiede sensibilità, coscienza, disponibilità, preparazione. E amore, prima di tutto".
Oltralpe non mancano segnali che fanno ben sperare. Anne Herbinet, pedagogista e responsabile nazionale del Settore per la catechesi ai disabili della Conferenza episcopale francese, riferisce che nella diocesi di Grenoble i catechisti hanno inventato "una pedagogia particolare per permettere ai giovani colpiti da autismo di cui si occupano di partecipare al sacramento della riconciliazione". Dato che non parlano, ma sono abituati a usare i pittogrammi, dopo aver avvertito il sacerdote che faceva le confessioni "hanno utilizzato dei sassi dipinti per esprimere la loro colpa e il peso dei loro peccati, scegliendo quelli su cui era raffigurato ciò che volevano esprimere, portandoli in una piccola borsa consegnata al confessore". Che vede i messaggi e "libera" dal peso dei sassi. "Poi consegna loro, come segno di riconciliazione, un pittogramma di perdono, di pace, di gioia".
Ma anche in Italia le parrocchie possono fare molto per una maggiore inclusione, "anche se non è facile per tre motivi - snocciola Laura Previdi, insegnante di Lettere in pensione, autrice del volume Parole in libertà. Diario semiserio della madre di un disabile (Paoline) e madre di Marco, 42 anni, con una grave disabilità -. Il primo? Le difficoltà che la Chiesa locale e forse anche quella globale ha nel nostro tempo, in cui emergono crisi di fondo come quella della famiglia. In secondo luogo, la mancata disponibilità da parte dei credenti. Infine, la modesta frequentazione delle strutture ecclesiali da parte delle famiglie con figli disabili. Marco in parrocchia è uno dei pochissimi abituato ad andare con noi a messa, vuole fare la comunione e se gli gira storto pazienza: esco fuori con lui". Per don Vasco Giuliani, presidente della Fondazione Opera diocesana d'assistenza Firenze onlus (Oda), "è difficile rilevare i bisogni di spiritualità di un disabile intellettivo, ma se vogliamo compiere un servizio alla dignità della persona dobbiamo individuare un linguaggio che superi quella che sembra una difficoltà di comunicazione insormontabile". (Laura Badaracchi)
 
 Tratto da SuperAbile.it INAIL

sabato 28 settembre 2013

La lettera del papà di un bambino con Sindrome di Down, spostato in una scuola "speciale"


Milano, 16 settembre 2013
Salve a tutti; dopo quattro anni in una scuola "normale", abbiamo deciso di iscrivere nostro figlio Giulio (sindrome di Down) ad una scuola "speciale". È stata un scelta complessa, meditata e condivisa; quelle che seguono sono alcune riflessioni scaturite da parte mia nei giorni immediatamente successivi a quella decisione. Un pensiero fatto, a mio parere, di grandi speranze ma anche di grande fatica. Buona lettura a chi vorrà.
Milano, 8 giugno 2013
Un cambiamento importante viaggia spesso con una fatica, una sofferenza, un dolore. E quando non è dolore, è riflessione e pensiero su quello che si lascia e perché. È un passaggio obbligato, anche quando il "nuovo" verso cui si è deciso di guardare ci piace, ci convince, ci rassicura. 40 anni fa, in una delle borgate più emarginate di Roma, mia madre, fresca direttrice di una scuola elementare dove la povertà e la disperazione erano all'ordine del giorno, con una passione e una dedizione che non ho mai più incontrato, combatteva e vinceva la sua battaglia affinché nella sua scuola si affermasse e vincesse l'integrazione di tutti con tutti. Era una rivoluzione, e la sua battaglia le ha causato ferite e sofferenze, ma so che, ancora oggi, all' età di 91 anni, ripercorrerebbe strenuamente la stessa strada. Ero un adolescente o poco meno, ma fu una lezione di vita e di partecipazione che non dimenticherò mai.
In questi giorni di ricordi e di pensieri, ciò che più mi risuona di quell'esperienza era la modalità: dove la passione prevaleva sulla ragione ma non sulle regole, ovvero: "Scelgo ciò che ritengo giusto e fa star bene e crescere la società; con questa certezza so di essere in grado di trovare le regole all'interno delle quali calare questo progetto. E se le regole non ci sono o non sono abbastanza adeguate al progetto, spenderò tutte le energie necessarie affinché siano predisposte nuove regole o adattate nel miglior modo possibile quelle esistenti".
Ma quel progetto, quella focalizzazione sul bene del bambino e sul valore del suo completo inserimento nel mondo dei "normali" rimaneva in cima al pensiero e alle azioni di mia madre.
Sono passati tanti anni e tanti sono stati i passi avanti fatti, sia nella regole che nella naturale predisposizione di tutti verso questo senso di civiltà e di società aperta, accogliente e solidale.
Così, per una di quelle combinazioni che a volte penso non fanno che confermare che non ci sarà un "disegno divino" ma non può essere tutto così casuale,
dopo tanti anni mi sono ritrovato sulla stessa barca. Per questo (e non solo) dedico qualche ora e qualche riga a riflettere su questi anni, su questi quattro anni vissuti in una scuola dove Giulio ha trascorso le sue giornate e dove è cresciuto.
Abbiamo fallito. Tutti. Tutti e indistintamente. Io come padre, noi come famiglia, le insegnanti, i dirigenti, le famiglie, gli operatori che a vario titolo seguono e curano Giulio. Abbiamo fallito perché la buona volontà e le energie che abbiamo speso non erano sufficienti, in quantità e qualità. Abbiamo fallito perché sentirci impotenti fino al punto di iscrivere Giulio in una scuola speciale (lo stesso tipo di scuola contro cui mia madre si batteva quaranta anni fa) significa che avevamo "speso" tutto quello che potevamo spendere. Abbiamo fallito perché abbiamo  rincorso le nostre tensioni personali e i nostri "ruoli" senza metterci abbastanza in gioco e in discussione.
Lungi da me concludere che, avendo fallito tutti, non ci siano responsabilità individuali. Anche in casi di fallimenti "collettivi" a mio parere
ciascuno deve sentirsi responsabile e a suo modo provare ad immaginare dove, come e quando ha commesso un errore, una leggerezza, una mancanza. Da parte mia ne ho riconosciute tante, non ho remore nel cercare di capire e provare a migliorare. Ma non siamo "singoli" messi assieme casualmente. Non basta un esame di coscienza personale per una qualche forma di catarsi individuale. Se siamo assieme e assieme lavoriamo assieme sui nostri figli, non è solo perché questi crescano sani ed educati. È perché la somma dei nostri agire è superiore alla somma aritmetica di ciascuno di noi. Quello a cui partecipiamo con il nostro contributo si chiama società, si chiama sistema valoriale, si chiama partecipazione e solidarietà. E se qualcosa non funziona, non possiamo permetterci il lusso di difenderci dietro un "ho fatto quello che potevo", "ho fatto il mio dovere", "ho fatto tutto con responsabilità". Dobbiamo avere o trovare la forza e il coraggio di andare oltre, di metterci in discussione, di interagire con gli altri che partecipano al progetto, di criticare e di ascoltare le critiche. Ci sta tutto e non lo nego: il dolore e la ferita non rimarginabile di noi genitori, la dignità professionale degli insegnanti e degli operatori, il rispetto delle regole dei dirigenti, la partecipazione emotiva dei genitori e dei loro figli. Ma questa volta non è bastato. Questa volta abbiamo rinunciato al "progetto". Proviamo tutti ad avere e credere un po' più di visione, un sogno. Giulio starà bene, crescerà e vivrà serenamente dentro alle sue difficoltà e alle sue fatiche. Tutti noi staremo bene e ce la caveremo egregiamente pur nell'altalena delle gioie e dei dolori. Non è in discussione il nostro "orticello" di singoli, già ben concimato e al tempo stesso impegnativo e a volte faticoso. Proviamo tutti a farci un regalo e a confrontarci; momenti come questo sono dei veri e propri passaggi a vuoto dentro a quella "visione" che fa parte di noi stessi. Non è un incidente di percorso e nemmeno un episodio casuale; è sintomo di qualcosa di più profondo e intenso, non perdiamo l’occasione di rifletterci. Buona vita a tutti.
Claudio

"
il nostro problema non è la materia umana, che c'è; è piuttosto la mancanza di una forma su cui modellare l'esuberanza della materia. Il problema non è il valore dei singoli, ma l'armonia tra tanti singoli di valore- VITO MANCUSO, La religione civile che manca all'Italia, "La Repubblica", 13 gennaio 2009