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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

giovedì 24 maggio 2018

La storia di Arturo e di sua mamma (con la sclerosi multipla)


Di Simone Fanti
Marco, Giuseppe, Matteo, Arturo, sono loro i protagonisti della serata di premiazione della seconda edizione di #afiancodelcoraggio, il premio letterario ideato da Roche che si caratterizza per la prospettiva inedita: raccogliere storie di uomini – padri, mariti, compagni, figli, fratelli, amici, colleghi – che ogni giorno sostengono e accompagnano le donne in lotta contro la sclerosi multipla (SM). Malattia cronica che colpisce il sistema nervoso centrale, può causare l’interruzione dei segnali tra il cervello, il midollo spinale e i nervi ottici, portando a una vasta gamma di sintomi.
Per la cronaca ha vinto Marco Lupia. Il concorso, però, è rivolto ai maggiorenni e una mamma, Alessia, deciso di inviare comunque la lettera scritta da suo figlio. Gli organizzatori l’hanno premiato comunque con una menzione speciale. Ve la pubblichiamo con la lettera di accompagnamento,
Merita di essere letta

La lettera della madre
Salve, mi chiamo Alessia, ho 40 anni e da quasi cinque mi hanno diagnosticato la sclerosi multipla. Sono ragazza madre di un fantastico bambino di 9 anni e mezzo, che si prende cura di me, sia nel fisico che nello spirito. So che il concorso è per i maggiorenni, ma lui ha voluto scrivere qualcosa e vuole che ve lo spedisca, non vince, ma partecipa. Grazie e buon lavoro.


La lettera di Arturo
Ciao io sono Arturo un bambino di 9 anni e mezzo, e vivo con mia madre Alessia che ne ha 40 e ha la sclerosi multipla, e ho anche una zia, ma lei va come una schioppettata. Mamma si muove con la stampella, le cose sono un po’ più difficili, soprattutto ora che abbiamo avuto la perdita del nostro cane Sole. Mia madre è una tipa che della sua malattia non gliene frega una mazza, però gli dispiace che insieme non possiamo fare determinate cose, tipo giocare a pallone o fare due passi in città o in montagna, di conseguenza io sono l’ometto di casa. Però mi fa sempre un sacco di regali per tutte le feste, per esempio a San Valentino mi ha regalato una poesia, tutti mi dicono che sono fortunato, ma già io lo so, una mamma così non si può neanche sognare. lo riconosco che è in difficolta, quindi la aiuto sempre e di conseguenza sto sempre con lei. È triste avere una persona in famiglia che soffre di qualunque malattia, anche se non è grave. Comunque mia mamma “è perfetta”, almeno per me.


POESIA PER MAMMA
Mi piace di te
Che mi chiedi se voglio il tè.
Oppure mi piace la tua mente
Più che Intelligente,
Divertente
a volte assente.
E sei bella
Come una gazzella.
Sei un po’ pazza
Come una ragazza
Ma in tutti i casi ti vorrò bene
E ti finirò le mele.
Non tutto si può dire, e neanche tutto si può fare.
Ma in tutti i casi per me è la migliore mamma di tutta la galassia.

POESIA PER MAMMA
È tanto bello quando si è contenti
Che si forma un sorriso a trentadue denti
L’amicizia è armonia
Tutto si ritrova con una melodia
Infatti le emozioni
Si esprimono delle canzoni
Che vengono col cuore
Che son fatte con amore.
Tratto da Invisibili.corriere.it

lunedì 7 maggio 2018

Invalido a chi? Disabilità: le parole corrette

Basta! Proviamo a non usarli più? Diversamente abile, invalido, disabile: basta!
Le parole sono importanti. Di più, le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Non è una esagerazione. Cambiamo il linguaggio e cambieremo il mondo. Ci sono parole da usare e non usare. E quelle da non usare non vanno usate. Hai voglia a dire: chiamami come vuoi, l’importante è che mi rispetti. No! Se mi chiami in maniera sbagliata mi manchi di rispetto. Se parliamo di disabilità, proviamo a usare termini corretti, rispettosi? Parole da usare e non usare. Concetti da esprimere o da reprimere. Semplicemente: persona con disabilità. L’attenzione sta lì, sulla persona. La sua condizione, se proprio serve esprimerla, viene dopo. La persona (il bambino, la ragazza, l’atleta ecc.) al primo posto. Questa è una delle indicazioni fondamentali che giungono dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità”. Non: diversamente abile, disabile, handicappato (ma lo usa ancora qualcuno?), portatore di handicap (come se avesse quel fardello, l’handicap, da portarsi appresso: grazie a DM, la rivista della Uildm, per la straordinaria vignetta di Staino, che fra l’altro ha una disabilità, essendo cieco), invalido. Già, invalido: quante volte, troppe, sentiamo questa parola ultimamente. Letteralmente una persona che non è valida. Il 10 per cento della popolazione mondiale (stima per difetto) ha una disabilità, quindi non è valido. “Diversamente abile” o “diversabile” hanno avuto forse una valenza anni fa, ora non più. “L’errore è di principio: nella dizione ‘diversamente abili’, infatti, viene proposto come prioritario il concetto di ‘diversità’… La disabilità non è una diversità, ma una condizione di vita. Ogni individuo è diverso dall’altro senza che per questo venga meno il valore, implicita una inferiorità”.S e si parla di sport, atleti paralimpici è consigliabile, anche riferito a quegli sport che non sono presenti alla Paralimpiade. Disabile (e tutti i termini che indicano il tipo di disabilità: paraplegico, tetraplegico, cieco, amputato, non vedente) non va usato come sostantivo: si confonde una parte con il tutto e così si riduce, offende, umilia una persona. Utilizzabile, invece, “disabili” al plurale: si indica un gruppo, come gli scolari o i politici. A imee Mullins, una delle più grandi sprinter paralimpiche, amputata alle gambe come Pistorius, un giorno scrisse un articolo per l’edizione italiana di Wired, dove era in copertina, e trasferì la riflessione in un bellissimo discorso. Prima di scrivere aprì il dizionario dei sinonimi alla parola disabile per vedere cosa ci ha trovato. “Sembrava che io non avessi nulla di positivo”. Alcuni termini sembrano obsoleti e invece sono ancora molto usati: per indicare una persona con paralisi cerebrale o cerebrolesa si dice spastico, che fra l’altro è diventato termine offensivo; come ritardato per dire di qualcuno che ha una disabilità intellettiva e relazionale. C’è chi scambia malattia e disabilità, come se i termini fossero interscambiabili: la disabilità è una condizione che può essere causata da malattia, ma non è una malattia. Attenzione a credere siano discorsi banali: per un bambino la malattia si attacca, se sto vicino a una persona cieca prendo la cecità. Usare “afflitto da”, “sofferente per” parlando di una persona con disabilità la pone come una “vittima”, triste e da aiutare: può esserlo, come per tutti, ma non è implicito che lo sia.
Il dibattito sul linguaggio è vivo e appassionante. Quello che diciamo ora fra qualche anno sarà cambiato. Il mondo paralimpico è stato importante. Prima che la rete facesse circolare idee, il maggior numero di persone con disabilità presenti nello stesso momento nello stesso luogo era ai Giochi Paralimpici. Nel tempo il linguaggio intorno alla disabilità è cambiato. In meglio. Anche grazie allo sport. Dire a una persona cieca “ci vediamo dopo? Hai visto?” o a una in carrozzina “fai una corsa qui” è assolutamente corretto, anzi si è invitati a farlo: non modificare il discorso se si parla con o è presente una persona con disabilità, sarebbe discriminatorio. Un segno evidente di disabilità è la carrozzina (non “carrozzella”, che è trainata dai cavalli). La carrozzina è un mezzo di mobilità, liberazione, indipendenza: aiuta, non limita. Per questo è da evitare “confinato, relegato in carrozzina”. Meglio, “usa una carrozzina”. Si potrebbe continuare, ma sono stato già troppo lungo. Il concetto fondamentale è quello dell’inizio: il focus è sulla persona. Essere “politicamente corretti” nel linguaggio aiuta ad avere rispetto. Non bisogna vergognarsene.
Tratto da invisibili.corriere.it