.

Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

domenica 27 gennaio 2019

Vite non degne della vita. L’Olocausto nasce per i disabili


25 GENNAIO 2013 di 
PER NON DIMENTICARE... MAI!
Tutto cominciò da quelle parole: “Vite indegne di essere vissute”. L’Olocausto nasce da lì. Lo sterminio che ha sconvolto il ‘900 europeo parte da quella parola: “indegne”. Ernst aveva 14 anni, veniva dalla comunità Rom, era in un ospedale psichiatrico. Un giorno regalò a un infermiere che gli era simpatico una foto con la dedica ‘In memoria’: “Tanto io non vivo a lungo. Spero che quando muoio ci sia tu, così mi metti bene nella bara”. Il giorno dopo lo avevano ucciso. Quell’infermiere non c’era. Hurbinek dimostrava tre anni, era paralizzato dalle reni in giu. Solo Henek, 15 anni, sapeva capirlo, stargli vicino, dargli da mangiare, pulirlo. Un giorno Henke annunciò: “Hurbinek ha detto una parola”. Non si capiva bene quale, ma aveva parlato. Quella parola rimase segreta. Morì “ai primi di marzo, libero ma non redento. Nulla resta di lui”, solo le parole del racconto di Primo Levi, altrimenti nessuno, proprio nessuno saprebbe di Hurbinek, che forse “aveva tre anni, e forse era nato ad Auschwitz e non aveva mai visto un albero”.
Le vite non degne della vita. Quelle di Ernst e di Hurbinek. Perché, come sempre, bisogna dare un volto e un nome e una storia, altrimenti la Storia rimane solo numeri e dati e documenti. La Giornata della Memoria nel ricordo della Shoah ci parla delle persone. Una per una. A contarne milioni. La follia nazista è partita dalla “vite indegne”: le persone con disabilità sono state le prime sulle quali è stato sperimentato l’orrore, a morire in massa, rinchiusi in una stanza con quel gas che entrava nel loro corpo, ma prima ancora uccisi con iniezioni. Non solo persone con disabilità intellettiva e malati psichici, ma anche disabili fisici e con malattie genetiche. L’idea del gas nacque per loro e fu poi adottata nei lager. Decine di migliaia, fra il ’39 e il ’41. Se ne contano oltre 70 mila, fra i quali 5 mila bambini. Ai quali se ne devono aggiungere almeno altri 250 mila dopo quella data, ma le cifre possono essere solo per difetto. Prima di ebrei, uomini e donne delle comunità Rom e omosessuali, oppositori politici. Prima di tutti, color che sono considerati un ‘peso sociale’, i disabili. Per approfondire, ci si può riferire al sito Olokaustos o su Superando, partendo da quanto pubblicato oggi, con approfondimento di Slvia Cutrera.
“Ausmerzen ha un suono dolce e un’origine popolare. È una parola di pastori, sa di terra, ne senti l’odore. Ha un suono dolce ma significa qualcosa di duro, che va fatto a marzo. Prima della transumanza, gli agnelli, le pecore che non reggono la marcia, vanno soppressi”. Marco Paolini con il suo monologo “Ausmerzen – Vite indegne di essere vissute”, trasmesso due anni fa da La7, è stato capace di porre all’attenzione di milioni di persone l’Olocausto dimenticato dei disabili. Quello che ha fatto lui in quelle poche decine di minuti di racconto dell’orrore non lo hanno fatto anni di storiografia, dibattiti e convegni. Quel monologo (ora riproposto intelligentemente da Einaudi in un cofanetto con Dvd con contenuti extra e un libro con lettere e storie, curati dal fratello Mario) andrebbe adottato nelle scuole.
Prima la sterilizzazione, già dal 1933, che non cominciò certo in Germania: Danimarca, Svezia, Finlandia e Norvegia erano le tristi avanguardie con leggi non diverse da quella tedesca, dove furono sterilizzate quasi 400 mila persone a partire dal ’34. Poi, nel ’39, è Hitler stesso con una lettera ad autorizzare i medici “a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili secondo l’umano giudizio”. L’inizio della fine. Parte l’Aktion T4, l’operazione di eutanasia forzata che prende il nome da Tiergartenstrasse 4, l’indirizzo di Berlino sede dell’apparato organizzativo, in un villino espropriato a una famiglia ebrea, e poi, dopo il ’41, l’Aktion 14F13, ancora più selvaggia e segreta. Sconvolgente perché non coinvolge le SS, la gestapo, i militari feroci che sono nell’immaginario collettivo nazista. No. Ci sono medici e infermieri a infliggere la morte e pene immani, giuristi e avvocati a giustificarla, inservienti e operai a dare la loro opera. Centinaia, probabilmente ancor più. Ecco un altro motivo del silenzio, durato fino agli ‘90. Era parte della società civile a essere protagonista del primo Olocausto nazista. La fine degli anni ’20 è stato uno dei periodi più difficili dal punto di vista economico e fu gioco facile far leva anche sui costi sociali delle persone con disabilità o malattie gravi. La propaganda di regime lavorò in questa direzione: nelle scuole (giravano problemi tipo questo: “Un malato di mente costa circa 4 marchi al giorno, un invalido 5,5 marchi, un delinquente 3,5 marchi. In molti casi un funzionario pubblico guadagna al giorno 4 marchi, un impiegato appena 3,5 marchi, un operaio… a) rappresenta graficamente queste cifre…), con manifesti (celebre uno dove un operaio portava sulle spalle il peso di persone disabili) e informazioni martellanti sui costi sociali delle persone con disabilità, attraverso film (l’ultimo è addirittura del ’41, poco prima di porre fine alla parte “pubblica” di Aktion T4: “Io accuso”, dove una donna con sclerosi multipla chiede al marito di ucciderla prima di soffrire troppo e lui viene poi assolto nel processo). Ancora squarci che fanno pensare. La Aktion T4, che continuò però, come già detto, in maniera ancor più brutale nei lager e nei luoghi che dovevano essere di cura, si concluse probabilmente per la nascente opposizione pubblica, anche da parte delle Chiese cattolica e protestante, per la risonanza che ebbero gli omicidi di massa: a centinaia di famiglie arrivavano lettere con certificati di morte per motivi fasulli, spesso uguali e negli stessi giorni, autobus trasportavano persone che scomparivano dopo che si innalzava il fumo dai forni crematori. Viene da chiedersi allora: se fosse successo anche in seguito, per le deportazioni di massa e lo sterminio della popolazione ebrea, di persone omosessuali o della comunità Rom, sarebbe magari cambiato qualcosa? Hurbinek che ha solo il nome e Ernst Lossa, al quale è dedicato il Museo del Giocattolo di Napoli, sono immensi testimoni delle nostre paure verso la disabilità e le diversità, che a volte purtroppo tornano. A questo serve la memoria, a farci diventare migliori.
 Tratto da invisibili.corriere.it


martedì 22 gennaio 2019

L’inno alla vita di un libro sulla disabilità infantile




Non è sicuramente facile parlare di infanzia e disabilità con lucidità ma anche con trasporto emotivo. Massimo Pesenti, insegnante di filosofia e scienze umane e presidente della Fism di Brescia (La Federazione Italiana Scuole Materne, organismo di area cattolica), affronta questa problematica nel libro ”Tutti i bambini sanno volare”. A cominciare dal momento delicatissimo della scoperta di disfunzioni nel corso della gestazione con la conseguente ardua scelta sul continuare o meno la gravidanza. Certamente, sottolinea Pesenti, la diagnosi prenatale ha portato alla nascita di meno bambini con disabilità. Al netto dei dilemmi morali e deontologici, di fronte alla disabilità l’autore vuole porre l’attenzione sul “ciò che si può fare”, piuttosto che su ciò che è precluso. E lo fa attraverso una serie di storie ed esperienze con un risvolto positivo.
In cui l’esistenza viene animata nel segno dell’amore.
Personalmente mi hanno colpito tre testimonianze. La prima è la vicenda di una bimba con la sindrome di Down, rifiutata dalla mamma e adottata da un single. Un gesto molto coraggioso che da adito a vari spunti di riflessione, in primo luogo l’anomalia rispetto al divieto per legge di un’adozione da parte di persone non sposate. Perché in questo caso è stato possibile? Pesenti ipotizza un’eccezione alla regola per i bambini con disabilità: per i figli “imperfetti” vanno bene anche famiglie” imperfette”, perché “imperfetto più imperfetto uguale Amore perfetto”. Può essere considerata come “eccezione” perché solitamente può adottare un bambino solo una coppia stabile da almeno tre anni; la legge stessa prevede, invece che nel caso in cui il bambino sia affetto da grave malattia o disabilità può essere adottato anche da una persona single. Un’altra storia è quella di Matteo, un bambino autistico, sostenuto dalla propria famiglia e poi dalla scuola, diventato un uomo ben inserito nella società.

E poi la vicenda di Rosaria, vittima alla nascita di un danno neurologico importante, che ha saputo raggiungere un’indipendenza tale da permetterle di guidare lo scooter con il quale si sposta in completa autonomia. Rosaria ha conquistato questo ed altri traguardi nonostante che i suoi genitori siano a volte assaliti da sentimenti di paura e di protezione, atteggiamento che ha finito per ostacolare la sua crescita e il raggiungimento della maturità.

Per noi di Invisibili il tema dell’autonomia è centrale in un discorso sulla disabilità. Tema trattato anche in un post recente . La storia di Rosaria mi è sembrata esemplare su come un’esistenza ordinaria abbia il potere di trasformarsi in straordinaria, se non la si vive solo stando a guardare ma mettendosi in gioco, confrontandosi con la diversità.
Il libro è arricchito da disegni realizzati, nel corso di laboratori artistici, dai bambini delle scuole dell’infanzia e primarie della provincia di Brescia nell’ambito di un concorso scolastico promosso dal Fondo Autisminsieme, in collaborazione con Fondazione Pinac, e che ha riguardato le classi in cui vi fosse una bambina o un bambino con disturbi dello spettro autistico. Un modo per far “parlare” loro, i bambini, su un tema che li riguarda.

Tutto il ricavato della vendita del libro (che costa 10 euro) è devoluto al Fondo RED, Risorse Educative per la Disabilità, finalizzato all’inclusione delle bambine e dei bambini con disabilità nelle scuole dell’infanzia e primaria (www.fondored.it)





Tratto da invisibili.corriere.it

mercoledì 9 gennaio 2019

C'è bisogno d'amore



Eccoci al 31 dicembre, il giorno dei bilanci soprasseduti all’istante. E ben trovato il successivo giorno dei buoni propositi dell’anno passato. Nella convenzionale ballata degli appuntamenti di fine anno aggiungo le mie evoluzioni a partire dal video della giovane giornalista Alessia Bottone Ieri come oggi. Storie di conciliazione lavoro-famiglia. Forse ci scapperà una lacrima.
Il video di Alessia, evidenzia bisogni e desideri delle famiglie moderne e la bella risposta che la società fornisce, quando c’è. Lo spezzone dedicato alla disabilità, visibile dal minuto 27, spiega bene il concetto in chiave disabilità: la mamma di una ragazza nata disabile riesce a mantenere il proprio lavoro con qualche sussulto ma, quando il marito non è più in grado di fornire il suo indispensabile aiuto alla famiglia per un problema agli occhi, le arriva il sostegno dell’azienda dove lavora la moglie, che accoglie senza indugi la concessione del part-time lavorativo.
Una storia da film natalizio. I tormenti e la speranza, da un canto. Dall’altra un’ottima azienda e la risposta alla speranza. Non è sempre così. Tante madri – e padri, ma anche mogli, mariti, fratelli e congiunti vari – abbandonano il lavoro per dedicarsi completamente all’amato con disabilità, perché non hanno alternative, e nel video se ne parla. Coppie si disgregano, anche. Basterebbe una risposta collettiva diversa alle questioni delle persone disabili. Una risposta di conciliazione nell’interesse comune.
Propongo un punto di vista, una epifania antropologica nota ma da riproporre. Tale manifestazione di pensiero, appunto epifania, mi tocca personalmente. Sia perché mi avvolge quotidianamente come persona disabile e sia perché avviluppa altre famiglie che conosco. Famiglie con disabilità alle prese con il proprio sé.
Mettiti nei panni di un familiare che sa che un elemento del gruppo ha bisogno. Che fai? Sai che è indifeso, che senza la costante presenza di una persona, almeno una, al suo fianco è finito: non può comunicare, non può bere, se gli va qualcosa di traverso lo vedi soffrire, cambiare colore, volere dirti qualcosa e non sapere come fare. Cosa fai? Hai sufficiente spregio dell’altro da restare inerme come il più atroce degli indifferenti?
Non ce la fai. Intervieni, e non una volta ma ogni volta che serve. Cioè pressoché sempre. E nella perpetuazione della tua scelta inevitabile il tuo lavoro rischia di andare a ramengo perché due cose al contempo non sempre puoi farle. Che già per fare quella che fai devi trovare la gabola per stare col tuo congiunto senza mollarlo e contemporaneamente andare per uffici a sbrigare pratiche, fare la spesa, comprare vestiti e atti di diversificata corvée.
Altre persone ti danno una mano, e si chiamano familiari. Ma come te non c’è nessuno perché tu sai che nessuno al pari di te conosce quella persona. Avete costruito una simbiosi unica. Siete così solidali che a un certo punto ti sei dimenticato di avere un te stesso di cui occuparti. Non fa niente, va bene così.
C’è gente che pensa che questa non sia vita. Ma tu sai che non è vero. Hai imparato ad apprezzare la vita per quello che è e a ricavarti i tuoi momenti di gaudio. Ciò non toglie che avresti gradito meno tortuosi percorsi per raggiungere la consapevolezza della felicità. Un aiuto ti farebbe piacere.
Ma, connotazione agghiacciante, nella tua consapevolezza sei conscio di non essere eterno. Ne soffri. Pensi al dopo, a quando non sarai in grado di fare quello che stai facendo o non ci sarai più. E scacci questi pensieri brutti. Questo sei tu. Nella gran parte dei casi delle famiglie con persone con disabilità succede così. E succede non a un solo elemento, ma a più persone, a loro modo uniche e insostituibili. Madri e padri indispensabili al contempo, consapevoli della potenza della loro unione e dentro di sé consci dell’unicità del proprio ruolo.
Ma non è tutto. C’è il controcanto. C’è la persona che riceve l’aiuto, che pure ha un punto di vista, fatto di osservazioni, conoscenza, sentimenti. Una voce che resta inespressa perché non trova la forza, la sfrontatezza, di venire fuori. E certe volte, quando la trova, si disperde in silenzio, sottovalutata o paurosamente respinta.
È la mia voce, quella di me che ti guardo morir di fatica per me. Vorrei che non fosse così, ma non c’è alternativa. Ho bisogno di cibo, devi essere tu a imboccarmi. Ho bisogno di una coperta, coprimi. Mi serve fare pipì, pensaci tu.
Provo un profondo senso di frustrazione, di vergogna, per avere bisogno di te che già tanto per me fai. Vorrei essere io ad aiutarti. A porgerti una tazzina di caffè quando sei stanco. Mi addolora ricevere passivamente. Non mi è sufficiente sapere che fai per amore, o per eccelso senso del dovere. Ma mi convinco. Lo accetto. Non ho alternative.
Si chiude l’anno. Ne inizia uno nuovo. Penso dobbiamo trovare un maggiore senso dell’appartenere. La nazione è una famiglia allargata. C’è bisogno d’amore.

Per vedere il video:

Tratto da invisibili.corriere.it


mercoledì 2 gennaio 2019

SIAMO UNA COMUNITÀ' DI VITA E UN PAESE RICCO DI SOLIDARIETA'


Messaggio di fine anno del presidente della Repubblica con ampio spazio destinato alla riflessione sulla condivisione di valori, prospettive, diritti e doveri che uniscono tutti gli italiani: “Non dobbiamo avere timore a manifestare sentimenti che rendono migliore la nostra società”

ROMA – L'invito a non avere nessun timore a manifestare quei buoni sentimenti che rendono migliore la nostra società, la sottolineatura dell'Italia come di un paese ricco di solidarietà, dove la società civile è arrivata con più efficacia e con più calore umano delle istituzioni pubbliche. E' l'Italia che “ricuce”, l'Italia positiva, quella che dà fiducia, come fanno le realtà del terzo settore e del non profit, al centro del messaggio di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Quattordici minuti, dal Quirinale, per parlare “dell'esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita”.
 “Sentirsi 'comunità' – scandisce Mattarella - significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa 'pensarsi' dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità, perché ciascuno di noi è, in misura più o meno grande, protagonista del futuro del nostro Paese. Vuol dire anche essere rispettosi gli uni degli altri. Vuol dire essere consapevoli degli elementi che ci uniscono e nel battersi, come è giusto, per le proprie idee rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore”.
Ed ecco il lungo passaggio dedicato ai “valori coltivati da chi svolge seriamente, giorno per giorno, il proprio dovere; quelli di chi si impegna volontariamente per aiutare gli altri in difficoltà. Il nostro è un Paese ricco di solidarietà. Spesso la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni. Ricordo gli incontri con chi, negli ospedali o nelle periferie e in tanti luoghi di solitudine e di sofferenza dona conforto e serenità. I tanti volontari intervenuti nelle catastrofi naturali a fianco dei Corpi dello Stato. È l’Italia che ricuce” e che dà fiducia. Così come fanno le realtà del Terzo Settore, del No profit che rappresentano una rete preziosa di solidarietà”. “Si tratta – continua Mattarella - di realtà che hanno ben chiara la pari dignità di ogni persona e che meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli, degli emarginati, di anziani soli, di famiglie in difficoltà, di senzatetto. Anche per questo vanno evitate 'tasse sulla bontà', è l’immagine dell’Italia positiva, che deve prevalere”, dice con fugace riferimento alle polemiche che hanno accompagnato le misure della manovra economica che penalizzano il non profit e sulle quali il governo ha garantito una riparazione nel primo provvedimento utile del 2019.
 “Ho conosciuto in questi anni – dice Mattarella in un altro passaggio - tante persone impegnate in attività di grande valore sociale; e molti luoghi straordinari dove il rapporto con gli altri non è avvertito come un limite, ma come quello che dà senso alla vita. Ne cito uno fra i tanti ricordando e salutando i ragazzi e gli adulti del Centro di cura per l’autismo, di Verona, che ho di recente visitato. Mi hanno regalato quadri e disegni da loro realizzati. Sono tutti molto belli: esprimono creatività e capacità di comunicare e partecipare. Ne ho voluto collocare uno questa sera accanto a me. Li ringrazio nuovamente e rivolgo a tutti loro l’augurio più affettuoso”.

Tratto da SuperAbile INAIL