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Ogni individuo sia valorizzato in quanto persona e non per quello che produce

giovedì 21 marzo 2019

#ReasonsToCelebrate: il video di Coordown che non festeggia ma ci mette con le spalle al muro

21 MARZO 2019 di 

La porta della monumentale biblioteca si apre solennemente. Un ragazzo avanza mentre decine di libri volano magicamente nell’aria e sembrano brillare. E mentre cammina il giovane spiega che il 21 Marzo è la Giornata Mondiale della Poesia: «Celebriamo l’arte che trasforma i sogni in parole e le parole in sogni», dice avvolto da un’aura che richiama vagamente le atmosfere di Harry Potter. Un libro vola via dalle sue mani. E di colpo, la scena cambia. 
Appare una foresta vista dall’alto, gli alberi di un verde chiaro e brillante. Tra l’intrico di tronchi sottili serpeggia una fila di persone in mantellina gialla con cappuccio: elfi del ventunesimo secolo. Avanzano rapìti da quella bellezza viva che restituisce respiro a respiro. Una ragazza bionda spiega che il 21 Marzo è anche La Giornata Internazionale delle Foreste: «Celebriamo – illustra – tutti i tipi di alberi e boschi che ospitano tante meravigliose forme di vita».
Cambia ancora scena e appaiono giovani donne che danzano in cerchio accanto a un falò. La ragazza al centro del cerchio spiega che il 21 Marzo è anche la Giornata del Nowruz (un’antica celebrazione comune a molte nazioni mediorientali e dell’est europeo che segna il risveglio della terra e che si celebra proprio per l’equinozio di Primavera ndr). «Celebriamo i valori di pace e solidarietà fra le generazioni e le famiglie», rivela.
E di colpo la scena cambia ancora. Per l’ultima volta.
Balli, colori e allegria sono sostituiti da un ambiente grigio, semibuio, solitario, duro. Il silenzio sospende il fiato. Sullo sfondo, a sinistra, solo un cono di luce illumina dall’alto metà di una sagoma umana. È un uomo dal viso asciutto e lo sguardo penetrante e senza rimedio. Un colpo di tacco dà il via a un messaggio doveroso e sofferto: «il 21 Marzo è anche la Giornata mondiale sulla sindrome di Down. Purtroppo, però, non abbiamo tanti motivi per festeggiare».
Segue una manciata di fotogrammi in cui gli altri tre protagonisti spiegano a turno: «Quando tutti noi, e non solo alcuni di noi, avremo più opportunità a scuola, nel lavoro, nella vita sociale, solo allora avremo davvero dei motivi per festeggiare». E poi il silenzio sui loro primi piani, l’espressione del viso seria, preoccupata. 
Ricompare, muto, l’ultimo protagonista; anche per lui parlano lo sguardo, dritto e vivo, le due lunghe rughe d’espressione agli angoli della bocca, le fattezze di un volto scolpito, bellissimo. E infine, mentre il campo si riallarga e svela che l’uomo è su di un palcoscenico vuoto e buio, mentre anche il cono di luce sembra smorzarsi, appare sullo schermo la frase non detta, un tuono al rallentatore: «Leave no one behind»: non lasciate indietro nessuno.
Un pugno nello stomaco, l’attesa spasmodica di un‘altra sorpresa, come se dietro le quinte di quel palcoscenico dovesse ancora accadere qualcosa, come se dovesse ancora rivelarsi un altro finale. In fondo, la denuncia è stata fatta, il messaggio è stato forte e chiaro. Coraggio, ancora un colpo di scena… E poi i protagonisti hanno tutti la sindrome di Down, il video non può finire così! E invece sì, finisce lì. In una condizione irrimediabile dove non c’è posto per altri concetti, per altre parole. 
È così, senza facce simpatiche e senza sketch a effetto che quest’anno Coordown celebra la Giornata Mondiale della Sindrome di Down, includendo nella sua le altre tre Giornate Mondiali che l’Onu celebra il 21 Marzo. Il video della campagna “Reasons To Celebrate”, per la regia dell’ungherese Rudolf Péter Kiss è basato sulla potenza della fotografia, sulla bellezza che non nega il dolore e lo rende “fruibile” perché solo l’arte può veicolarlo. La campagna è nata dalla collaborazione delle agenzie FCB Mexico e SMALL New York e prodotta da Switzerland’s GOSH* a Budapest. I quattro magnifici attori provengono da quattro Paesi diversi: Ruben dalla Gran Bretagna, Lauriane dalla Svizzera, Arjona dall’Albania e Davide dall’Italia. Anche quest’anno la campagna internazionale è stata realizzata insieme a DSi – Down Syndrome International con il contributo di Down Syndrome AustraliaDown’s Syndrome Association (UK)Down Syndrome Albania Foundation e le associazioni svizzere Art21 Association Romande Trisomie 21 e Progetto Avventuno. Non c’è anno in cui il CoorDown (Coordinamento nazionale delle associazioni delle persone con sindrome di Down) non abbia proposto campagne scomodedalla lettera del bambino non ancora nato alla futura mamma, alle campagne di autonomia, fino alla vita di coppia e al rifiuto di definire “speciali” i bisogni semplicemente umani. Che sono quelli di tutti, qui ripresi attraverso la Poesia, la salvaguardia delle Foreste, il Nowruz: opportunità di studio, di lavoro, di vita sociale. Fin qui, le persone con la sindrome di Down hanno guadagnato posizioni grazie al lavoro incessante delle famiglie, a un associazionismo di valore e a una propaganda coraggiosa. Ma oltre, nella relazione con mondo, è il mondo che manca, che le lascia indietro. Questo video è un’avanguardia preziosa che si porta dietro un esercito di persone disabili fin troppo frammentato. E su questa frammentazione interna dovremmo riflettere. “Non lasciate indietro nessuno”, dice il messaggio. A chi è rivolto? Ai Paesi, alle istituzioni certamente. E a ciascuno di noi. «L’inclusione non deve dipendere dalle competenze del singolo, ma è un processo che coinvolge tutti» commenta su Facebook Martina Fuga, vicepresidente di Pianeta Down e responsabile della comunicazione di CoorDown. È un monito, un grido corale immenso che va oltre il “bisogno” di opportunità; il grido vuol dire “ho diritto pieno” alle opportunità.«Se è vero che c’è una possibilità di imparare per tutti, – continua Fuga – che c’è un’autonomia possibile per tutti, che c’è una mansione lavorativa per ognuno, allora il punto non sono le abilità, il punto non è quanto io sia brava ad adattarmi al mondo, ma quanto il mondo mi fa spazio e mi viene incontro. Il punto sono le opportunità che devono essere a misura di tutti, affinché tutti trovino il loro posto nel mondo». È il concetto di Progettazione Universale su cui ruota la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, un’utopia per alcuni, una rivoluzione scomoda in realtà, perché sposta le nostre abitudini. È una grande novità che fiorisce nel pensiero contemporaneo ma che nella nostra società ha l’effetto di un sassolino nella scarpa. Per pigrizia, per un’ignoranza che non è più scusabile, nient’altro che questo. Paradossalmente, nella società odierna, evoluta ma cinica, la Progettazione Universale è diventata la più grande barriera da abbattere; per far finta di cambiare per non cambiare nulla; per stare più comodi relegando la vita delle persone disabili in meravigliosi giardini, quando va bene, con risposte speciali a bisogni speciali. «Alla fine dei video siete tristi? Ebbene, vi do una notizia, venire sbeffeggiati sui social o esclusi nella vita è triste! – chiosa Martina Fuga – Se volete i sorrisi andate a guardare i bambini e le mamme che fanno il karaoke, o bambini e per fortuna qualche ragazzo che cantano i Queen a squarciagola, ma non fermiamoci lì, ricordiamoci che con quei video non cambieremo una virgola. Lì stiamo solo dicendo che siamo orgogliosi di chi siamo, che è vero, ma non stiamo chiedendo nulla. Alla fine del video avete ricevuto un pugno nello stomaco? Bene, era quello che volevamo. Volevamo farvi riflettere e chiedervi di farci un po’ di spazio vicino a voi. Alziamo la voce, chiediamo rispetto».
Rispetto. È questo il punto di non ritorno

Tratto da invisibili.corriere.it


mercoledì 20 marzo 2019

Oltre la disabilità: protagonista in due film, adesso mostra la società che vorremmo

18 MARZO 2019 di                                                                                                                               
In questo blog blog ci siamo spesso occupati di teatro, libri e cinema attinenti al tema della disabilità. E noi di Invisibili ci siamo più volte trovati a pensare che sarebbe stato bello, un giorno, vedere uno spettacolo o un film in cui la disabilità degli attori sarebbe stata del tutto irrilevante ai fini del ruolo interpretato e della storia narrata. Quel giorno – ci siamo detti – avremo la prova che le barriere sono state davvero abbattute anche nel campo dell’arte. Adesso quel giorno è arrivato. Al cinema, con un piccolo film italiano, prezioso nella sua semplicità e anche divertente.                                              Una commedia per ragazzi, “Detective per caso”, diretto da Giorgio Romano, autore anche della sceneggiatura insieme ad Aurora Piaggesi, su soggetto di Daniela Alleruzzo. Ed è una commedia investigativa affidata ad un cast di giovani attori, tutti professionisti e ancora sconosciuti, alcuni con qualche forma di disabilità. Ma la cosa interessante, potremmo dire persino rivoluzionaria, è che in ogni caso la singola disabilità non ha nulla a che vedere con i ruoli che interpretano. Sono, infatti, ventenni come tanti. Che lavorano, vivono da soli, si fidanzano, litigano, fanno l’amore, si scatenano in discoteca e si mettono nei guai. I protagonisti di questo film, dalla vulcanica Emanuela Annini, ovvero la Giulia appassionata di misteri, allo spassosissimo Giordano Capparucci, nei panni di un ipocondriaco molto ansioso, soprannominato Panico dagli amici, si contendono il trofeo per le migliori risate con i ben più noti Stefano Fresi e Massimiliano Bruno, poliziotti sopra le righe protagonisti di un prologo esilarante. Ma sono tanti gli attori famosi che hanno accettato un cameo nel film, da Claudia Gerini a Valerio Mastandrea, da Paola Cortellesi e Paola Tiziana Cruciani a Mirko Frezza, Stella Egitto e Lillo, tutti con una partecipazione solidale al progetto di “Detective per caso” uscito oggi nelle sale italiane. Nato da un’idea di Daniela Alleruzzo, presidente dell’Accademia L’Arte nel Cuore, in cui si sono formati i giovani attori protagonisti del film. Se “Detective per caso” ci mostra la società come vorremmo che fosse, cioè una società in cui la disabilità ormai non si avverte nemmeno più, tanto assorbita nella normalità del quotidiano, un altro film italiano altrettanto prezioso, “Dafne”, ci parla di una società che è già, quella in cui una ragazza adulta con Sindrome di Down lavora in totale autonomia, ha i suoi amici, un fidanzato e un conto in banca personale. E mostra tutta la sua determinazione quando la morte improvvisa della madre le sconvolge la vita, dal punto di vista emotivo per il dolore profondo della perdita, ma anche dal punto di vista pratico dato che Dafne dovrà cominciare a prendersi cura del padre anziano, rimasto vedovo e sopraffatto dal lutto. Il film, diretto da Federico Bondi, ribalta dunque il punto di vista su un tema delicato come il dopo di noi e lo fa con grazia autentica e discrezione, mettendosi da parte e facendosi specchio di una protagonista potente, interpretata da Carolina Raspanti. Lei no, non è un’attrice professionista come sono invece i suoi colleghi di “Detective per caso”, ma ha una verità di sguardi, gesti e sentimenti che restituiscono sfumature importanti di una storia che non si dimentica. Lei, che è nata nel 1984 a Lugo di Romagna con la Sindrome di Down, si è brillantemente diplomata ed è stata assunta presso l’Ipercoop di Lugo, dove tuttora lavora. Proprio come Dafne. E che ha scritto due romanzi autobiografici che presenta spesso in giro per l’Italia: “Questa è la mia vita” e “Incontrarsi e conoscersi: ecco il mondo di Carolina”. Il regista ha definito il film, che uscirà nelle sale italiane il 21 marzo in coincidenza con la Giornata mondiale delle Persone con Sindrome di Down, «la parabola di un rapporto padre-figlia che offre un’opportunità per entrambi, la storia di una “ripresa” come ottimismo e volontà di superamento». E questo ottimismo si respira, tra dolore, ironia – cifra identificativa di Dafne/Carolina – e amore. Un amore che è a due sensi, andata e ritorno, offerta e dono. Nelle note di regia, Federico Bondi scrive ancora che «la “realtà” è stata l’ispirazione e il metodo mentre scrivevo e mentre giravo. Non è stata Carolina ad entrare nel film (non ha mai letto una sola pagina della sceneggiatura), è stato il film a piegarsi a lei». E questo è ulteriore garanzia, per noi che guardiamo, che ciò che vediamo è non solo possibile, ma reale. E sta accadendo già adesso.
Tratto da invisibili.corriere.it

«Che bella donna, poverina!». Tra cliché negativi, adaptive fashion e sfilate disability friendly nell’Italia del 2019

di 
Che bella donna, poverina! Mi capita spesso di ascoltare questa frase, mentre incrocio le persone per la strada. L’ultima volta, ieri. Ogni volta che succede, mi provoca un sorriso amaro. Amaro non perché mi ferisca, ma per il fatto che dimostri come la nostra cultura sia ancora incastrata tra mille cliché. La mia vera amarezza è questa. Non sono da buttar via, ma non mi considero neanche così attraente da focalizzare tanta attenzione. Come mai, allora, si concentrano tanto su di me? Poi, poverina, perché? Col tempo, è arrivata la mia personale interpretazione a queste domande che giravano in testa da tanto. Magari sbaglierò, ma molti si meravigliano ancora quando una donna che, come me, usa la carrozzina per muoversi dedica il suo tempo anche a migliorare il proprio aspetto esteriore attraverso il modo di vestirsi, muoversi – per quel che posso! – e presentarsi. Insomma, che mi interessino abbigliamento, trucco, acconciature ecc. Secondo me, questo atteggiamento rispecchia alcuni stereotipi errati e, purtroppo, ancora molto diffusi: Di norma, una donna con disabilità non cura molto il suo look. D’altronde, perché dovrebbe? Non deve mica raggiungere successi professionali e personali. Relazioni amorose? Non ne parliamo proprio. È vero che la moda sta iniziando a capire il mercato potenziale e a rappresentare la bellezza nelle sue diverse forme, etnie e disabilità. Le vedremo, senz’altro, durante la settimana della moda di Milano (19 – 25 febbraio 2019). La percezione collettiva è, però, ancora quella del “fenomeno”. Attualmente, almeno nel nostro Paese, credo che siamo ancora agli esordi. In Italia, ci sono sì molti concorsi di bellezza dedicati alle persone con disabilità – per lo più, donne – e si parla molto di Adaptive Fashion, cioè quell'abbigliamento rivolto ad acquirenti con esigenze cosiddette “speciali” perché convivono con protesi, sedie a rotelle, sacchetti della colostomia, dispositivi per l’insulina ecc. Una modella fuori dai consueti canoni di bellezza, però, continua a destare tanta meraviglia e compassione nel grande pubblico. No, non sto descrivendo il Medioevo. Per i più, sembra ancora strano che una donna con disabilità non voglia rinunciare a sentirsi desiderabile e affascinante. Certo è che, a piccoli passi, si sta creando una rappresentazione inclusiva del corpo umano grazie a défilé, magazine platinati e campagne pubblicitarie che propongono modelli e modelle lontani dalla bellezza convenzionale perché caratterizzati da vitiligine, albinismo, taglie forti, colore della pelle, disabilità motorie, sindrome di down ecc. Se nel resto del mondo, tali rivoluzioni estetiche stanno aprendo la strada anche ad altre riflessioni sulla vita reale di queste persone, in Italia il dibattito sembra ancora abbastanza spento se non su riviste specializzate. Significativo è, certamente, il caso di Bebe Vio che, oltre ad essere campionessa paralimpica e portavoce dell’ottimismo nonostante le inevitabili difficoltà con la sua oramai nota frase “La vita è una figata!”, è conosciuta da tutti anche come ambasciatrice ufficiale di una nota maison di alta moda e come volto di varie campagne pubblicitarie. Milioni di telespettatori, poi, hanno conosciuto Chiara Bordi perché è stata la prima ragazza con una protesi a partecipare alla finalissima del concorso di Miss Italia nel 2018. Queste due giovani donne sono esempi da rispettare se non per altro perché hanno attratto molto l’attenzione dei media e, di conseguenza, del grande pubblico aprendo il discorso. È anche importantissimo che si muovano i primi passi verso una moda più Disability Friendly e che, com’è già successo, si organizzino eventi nei quali la passerella accolga contemporaneamente modelli con e senza disabilità.Tutto questo, però, non basta. La vita di tutti i giorni è un’altra cosa. E nella vita di tutti i giorni si può parlare di inclusione a tutti gli effetti soltanto quando ciò che ha spezzato le convenzioni non fa più notizia. Nel frattempo, continuo a sorridere ogni volta che, senza conoscere ciò che sono e quello che faccio, mi definiscono poverina. Tuttavia, per cambiare la percezione della disabilità, non escludo di potermi girare all’improvviso per chiedere: E voi, miei cari, cosa avete realizzato nella vostra vita senza disabilità?
Tratto da invisibili.corriere.it