Eccoci al 31 dicembre, il giorno dei bilanci soprasseduti
all’istante. E ben trovato il successivo giorno dei buoni propositi dell’anno
passato. Nella convenzionale ballata degli appuntamenti di fine anno aggiungo
le mie evoluzioni a partire dal video della giovane giornalista Alessia Bottone Ieri come oggi.
Storie di conciliazione lavoro-famiglia. Forse ci scapperà una lacrima.
Il video di Alessia, evidenzia bisogni e desideri delle famiglie
moderne e la bella risposta che la società fornisce, quando c’è. Lo spezzone dedicato alla
disabilità, visibile dal minuto 27, spiega bene il concetto in chiave
disabilità: la mamma di una ragazza nata disabile riesce a mantenere il proprio
lavoro con qualche sussulto ma, quando il marito non è più in grado di fornire
il suo indispensabile aiuto alla famiglia per un problema agli occhi, le arriva
il sostegno dell’azienda dove lavora la moglie, che accoglie senza indugi la
concessione del part-time lavorativo.
Una storia da film natalizio. I tormenti e la speranza, da un
canto. Dall’altra un’ottima azienda e la risposta alla speranza. Non è sempre
così. Tante madri – e padri, ma anche mogli, mariti, fratelli e congiunti vari
– abbandonano
il lavoro per dedicarsi completamente all’amato con disabilità, perché non
hanno alternative, e nel video se ne parla. Coppie si disgregano, anche. Basterebbe una risposta
collettiva diversa alle questioni delle persone disabili. Una risposta di
conciliazione nell’interesse comune.
Propongo un punto di vista, una epifania antropologica nota ma da
riproporre. Tale manifestazione di pensiero, appunto epifania, mi tocca
personalmente. Sia perché mi avvolge quotidianamente come persona disabile e
sia perché avviluppa altre famiglie che conosco. Famiglie con disabilità alle
prese con il proprio sé.
Mettiti nei panni di un familiare che sa che un elemento del
gruppo ha bisogno. Che fai? Sai che è indifeso, che senza la costante presenza
di una persona, almeno una, al suo fianco è finito: non può comunicare, non può
bere, se gli va qualcosa di traverso lo vedi soffrire, cambiare colore, volere
dirti qualcosa e non sapere come fare. Cosa fai? Hai sufficiente spregio
dell’altro da restare inerme come il più atroce degli indifferenti?
Non ce la fai. Intervieni, e non una volta ma ogni volta che serve. Cioè
pressoché sempre. E nella perpetuazione della tua scelta inevitabile il tuo
lavoro rischia di andare a ramengo perché due cose al contempo non
sempre puoi farle. Che già per fare quella che fai devi trovare la gabola per
stare col tuo congiunto senza mollarlo e contemporaneamente andare per uffici a
sbrigare pratiche, fare la spesa, comprare vestiti e atti di diversificata
corvée.
Altre persone ti danno una mano, e si chiamano familiari. Ma come
te non c’è nessuno perché tu sai che nessuno al pari di te conosce quella
persona. Avete costruito una simbiosi unica. Siete così solidali che
a un certo punto ti sei dimenticato di avere un te stesso di cui occuparti. Non
fa niente, va bene così.
C’è gente che pensa che questa non sia vita. Ma tu sai che non
è vero. Hai imparato ad apprezzare la vita per quello che è e a ricavarti i
tuoi momenti di gaudio. Ciò non toglie che avresti gradito meno tortuosi
percorsi per raggiungere la consapevolezza della felicità. Un aiuto ti farebbe
piacere.
Ma, connotazione agghiacciante, nella tua consapevolezza sei
conscio di non essere eterno. Ne soffri. Pensi al dopo, a quando non sarai in grado di
fare quello che stai facendo o non ci sarai più. E scacci questi pensieri
brutti. Questo sei tu. Nella gran parte dei casi delle famiglie con persone con
disabilità succede così. E succede non a un solo elemento, ma a più persone, a
loro modo uniche e insostituibili. Madri e padri indispensabili al contempo,
consapevoli della potenza della loro unione e dentro di sé consci dell’unicità
del proprio ruolo.
Ma non è tutto. C’è il controcanto. C’è la persona che riceve
l’aiuto, che pure ha un punto di vista, fatto di osservazioni, conoscenza,
sentimenti. Una voce che resta inespressa perché non trova la forza, la
sfrontatezza, di venire fuori. E certe volte, quando la trova, si disperde in
silenzio, sottovalutata o paurosamente respinta.
È la mia voce, quella di me che ti guardo morir di fatica per me.
Vorrei che non fosse così, ma non c’è alternativa. Ho bisogno di cibo,
devi essere tu a imboccarmi. Ho bisogno di una coperta, coprimi. Mi serve fare
pipì, pensaci tu.
Provo un profondo senso di frustrazione, di vergogna, per avere bisogno
di te che già tanto per me fai. Vorrei essere io ad aiutarti. A
porgerti una tazzina di caffè quando sei stanco. Mi addolora ricevere
passivamente. Non mi è sufficiente sapere che fai per amore, o per eccelso
senso del dovere. Ma mi convinco. Lo accetto. Non ho alternative.
Si chiude l’anno. Ne inizia uno nuovo. Penso dobbiamo trovare un
maggiore senso dell’appartenere. La nazione è una famiglia allargata. C’è bisogno d’amore.
Per vedere il video:
Tratto da invisibili.corriere.it
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